Addio all’albergo di Mario Merelli
«Troppe tasse, devo chiudere»

Fu il primo albergo ad aprire a Lizzola nel 1961. La moglie dell’alpinista: «Ormai si lavorava solo due mesi, con 10 mila euro di Imu».

Si sedeva davanti al camino, sguardo placido ma arguto, e con gli amici studiava i percorsi da affrontare. Fossero le vette delle Orobie o un Ottomila, Mario Merelli aveva già in mente tutto e gli scarponi perennemente davanti al fuoco erano il suo pro memoria, il senso delle sue giornate.

Ora il Meuble Camoscio, la casa dell’alpinista scomparso nel gennaio 2012 sul pizzo Scais, ma anche l’albergo costruito a Lizzola da suo padre Patrizio per accogliere i turisti dello sci e delle estati escursionistiche, non c’è più. Chiuso, a riprova – se ancora ce ne fosse bisogno – della fatica di vivere e lavorare in montagna. «Avevamo iniziato negli Anni Sessanta: insieme ai Tognoli siamo stati i pionieri dell’attività alberghiera a Lizzola – spiega Raffaella Merelli – e ora ogni tanto torno su, apro le finestre e piango pensando a che fine ha fatto il Camoscio. E penso a mio fratello Mario, a cosa direbbe della sua Lizzola» che è andata negli anni svuotandosi.

Un lento esodo

«Altri due alberghi hanno chiuso prima di noi – aggiunge la sorella dell’alpinista che in 18 spedizioni è salito su 10 vette di ottomila metri: Everest, Makalu, Shisha Pangma, Annapurna e tanti altri –: quando è iniziata la crisi del turismo ha chiuso l’albergo Redorta che era stato aperto dai Tognoli, poi, sette anni fa, anche l’Hotel Duemila» che dal 2004 al 2012 è stato gestito da Kurt Dubiensky, nipote e omonimo dell’indimenticato direttore del Coro Idica di Clusone. «Non c’erano più settimane bianche, i turisti non salivano più a sciare – spiega Giacomo Dubiensky, padre di Kurt (nipote) – e l’affitto era troppo oneroso: era ormai improponibile tenere aperto».

Inoltre altre persone hanno messo la parola fine alla propria attività, nella frazione montana di Valbondione: da parecchi mesi a Lizzola hanno abbassato la serranda anche un negozio di alimentari e la macelleria storica, andata in pensione la titolare. «Ma anche Mario faceva fatica a tenere in piedi il Camoscio – ammette Raffaella –. Dopo la sua tragica morte è rimasto a noi e se ne è occupato mio figlio Sergio, più per onorare e continuare il sacrificio di una vita dei miei genitori e nel ricordo di Mario».

Che non a caso era chiamato «il camusì», il piccolo camoscio, tanto forte era il richiamo che le pareti impervie esercitavano su di lui e innata la sua bravura nello scalarle. Lo stesso nome del meuble di famiglia che per anni ha continuato ad accogliere i turisti («sempre meno») e proporre serate dedicate all’alpinismo, nel salone da pranzo tutto rivestito in legno che pare un museo dedicato alle imprese di Merelli.

Ora lo sconforto non si può nascondere: «Fa male perché non è che non eri capace, è il sistema che non va bene ed è un vero peccato perché, io dico, cosa ci manca? Cosa manca alle nostre montagne? Conosco attività in Trentino – continua Raffaella Merelli – che hanno aiuti a fondo perduto. Invece noi dalla politica abbiamo sempre avuto soltanto paletti. Le tasse sono talmente tante che gestire un albergo in montagna ora, quando si lavora forse due mesi all’anno, è una cosa impossibile». E cita una cifra che dà l’idea del divario tra entrate e uscite: «Il mio albergo paga più di 10 mila euro di Imu, Tari e Tasi all’anno. Un anno abbiamo sforato e ci hanno messo una mora del 30 per cento: se questo è aiutare le attività di montagna...».

Gli anni d’oro

Pensare che negli Anni Ottanta a Lizzola era un viavai di gente tutto l’anno: «Arrivavano da Milano, Bergamo, Pavia – racconta Merelli –, d’estate c’erano famiglie che si fermavano anche due mesi, con i papà che andavano e venivano per lavorare. Clienti di Roma, toscani, di Genova, famiglie che avevano il piacere di tornare e ritrovarsi, l’anno prima prenotavano per l’anno dopo. Il mio papà li portava a fare la gita, stavano via tutto il giorno. Era una clientela affezionata, ci si conosceva da anni, si cresceva insieme». Tempi d’oro, gli Anni Settanta e Ottanta, quando «gli impianti sciistici funzionavano bene, il turismo rimaneva in zona e i clienti arrivavano con ogni condizione di tempo: partivano i pullman di Cral o Sci club – continua – che magari si mettevano di traverso per la neve e i clienti salivano a piedi. Anche mio papà scendeva con la jeep a Valbondione per andare a prendere i turisti».

Altri tempi, altro turismo e anche altro clima: «Allora la neve arrivava sul nostro terrazzo, scendevano anche 4 metri in due giorni, ma la gente arrivava comunque anche a piedi da Valbondione, pur di sciare. Quante cantate! Ricordo l’anno della austerity, quando c’erano le targhe alterne, e la gente restava su fino alla mezzanotte della domenica e cosa non inventavamo: era uno spettacolo». Negli ultimi tempi, invece, «si lavorava soltanto due mesi d’estate».

Aprì nel 1961, il Camoscio: «Papà faceva il falegname a Vertova e nel tempo libero, il sabato e la domenica, saliva a costruire l’albergo. Successe che stava facendo i serramenti a Castione, in una villa di un milanese, un tale Campodonico che coltivava perle in Giappone. Chiese a papà di salire a Valbondione con lui, a vedere i suoi terreni, e se ne è innamorato. Ma non aveva i soldi per pagare il terreno e lui gliel’ha dato, con la promessa che avrebbe pagato quando avrebbe potuto. Mio papà era innamorato della montagna».

E presto Lizzola divenne la sua casa, il suo lavoro: guida alpina e maestro di sci, Patrizio Merelli avviò nel 1971 insieme all’amico Franco Tognoli e ad Angelo Albricci la scuola di sci, costruì lo skilift fuori dal Camoscio dove nel frattempo, nel 1964, l’intera famiglia lo aveva raggiunto. «Siamo saliti quando mio fratello Dino ha iniziato la prima elementare e io la seconda – continua Raffaella –, mentre Mario era piccolino: è nato nel ’62».

Lezioni di sci, escursioni sul Pizzo Coca, il Redorta, il Diavolo e Diavolino, ma anche imprese alpinistiche in giro per il mondo: quando il papà alpinista lasciava Lizzola, era la moglie Luigina a condurre il meuble, poi insieme a Mario e negli ultimi anni alla nuora Mireia, alpinista catalana conosciuta da Mario in un campo base himalayano.

«Al Camoscio ci salgo ancora, ma a piangere dal dispiacere – confida Raffaella –: la montagna va aiutata, non coperta di tasse. Chiedete ai rifugisti come si fa a lavorare quando il tempo è brutto e la gente non c’è, agli albergatori quando non nevica e la gente non c’è. Non si può lavorare due mesi appena e pagare per tutto l’anno».

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