Il fango del Csm
e la morale al paese

Il suo nome ha tenuto banco sui mass media per alcune settimane. A fine aprile scorso la procura di Perugia - competente per le indagini sui magistrati di Roma - ha notificato la chiusura delle indagini a Luca Palamara, ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura (Csm, l’organo di governo della categoria) ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (il principale ente di rappresentanza). Palamara è accusato di corruzione: avrebbe messo le sue funzioni, in cambio di viaggi e regali, a disposizione dell’ex capo delle relazioni istituzionali di un importante imprenditore, ed arrestato nel febbraio 2018 per frode fiscale: Palamara è accusato di avere favorito lui e altri indagati con una serie di nomine o tentate manovre negli uffici delle Procure.

Un altro filone su Palamara riguarda invece la somma di 40 mila euro che avrebbe incassato, quando era ancora membro del Csm, per agevolare la nomina di Giancarlo Longo a Procuratore di Gela. Quest’ultima accusa, la più grave, a maggio è decaduta: senza di essa i pm non avrebbero potuto attivare la microspia ambientale, detta Trojan, che ha tracciato tutti gli incontri, le telefonate, le chat di Palamara con i colloqui con colleghi e politici. La notizia è finita nelle pagine interne dei giornali nazionali e tra quelle secondarie dei tg, con un rilievo minimo rispetto allo spazio riservato quando emerse l’indagine. Ma la vicenda è servita a evidenziare (o a confermare) la condizione del Csm, le derive correntizie e i carrierismi che lo contrassegnano. Al punto che il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che ne è presidente, ha espresso «grave sconcerto» per la situazione, sottolineando come «urge la riforma», per troncare «la commistione politici-toghe».

La cattiva salute del Consiglio ha provocato delusione e sorpresa in particolare in quella parte dell’opinione pubblica che non mette mai in discussione l’operato dei magistrati, visti come eroi senza macchia con il compito di moralizzare l’Italia attraverso le inchieste. Ma sono uomini come gli altri, con punti di forza e debolezze, eccellenze e miserie, e non vanno rivestiti di ruoli che non gli sono propri. Il governo ha messo in cantiere una riforma secondo la quale i componenti laici del Csm non potranno più provenire né dall’esecutivo né dal Parlamento. Cambierà anche la legge elettorale e la composizione del Consiglio (si tornerà a 20 togati e 10 laici). Altre norme sono previste per le nomine dei capi degli uffici giudiziari assicurando la trasparenza delle scelte. Andranno fatte secondo il rigoroso ordine cronologico, per evitare le cosiddette «nomine a pacchetto», occasione di accordi sottobanco tra le correnti della magistratura. Nel febbraio scorso il governo ha approvato anche un disegno di legge per riformare il processo penale con l’obiettivo di velocizzarlo (termini stringenti per le indagini preliminari e sanzioni ai pm che non li rispettano), obiettivo anche dei cambiamenti previsti in ambito civile. La Camera ha poi detto sì in via definitiva al decreto sulle intercettazioni: è previsto un potenziamento di questo mezzo (che dovrebbe essere uno dei tanti strumenti d’indagine mentre è abusato), escludendo che il giornalista che pubblica le intercettazioni possa essere incriminato. Ora sarà il magistrato, e non più la polizia giudiziaria, a valutare quali colloqui sono rilevanti per le indagini e vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni che ledono la reputazione di singole persone o dati personali («salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini»). Nulla si dice sulla pubblicazione di carte giudiziarie coperte dal segreto istruttorio e che spesso finiscono sui giornali nonostante sia un reato, previsto dall’articolo 326 del codice penale (rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio): ma il cronista se la cava pagando una piccola oblazione. Ci sono quotidiani che hanno accettato di alimentare ogni giorno la gogna rivendicando il diritto di usare le intercettazioni come un’arma della lotta politica e seminando sospetti. In Italia in un anno sono state eseguite 132.749 intercettazioni con un costo di 170 milioni di euro, quattro volte quelle compiute in Francia, oltre 40 quelle in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (escluse le attività compiute dai servizi segreti).

Siamo il Paese occidentale con il più alto numero di intercettazioni pro capite (76 ogni 100 mila abitanti) e la probabilità che un cittadino sia «spiato» è 140 volte più alta che negli Stati Uniti. La selezione dovrebbe servire a impedire che vengano rese pubbliche, attraverso giornali e tv, se non penalmente rilevanti. Ma sappiamo che non è così: spesso ci è capitato di leggere o ascoltare lunghe registrazioni di colloqui che hanno il solo effetto di rovinare la reputazione pubblica a chi non è oggetto di indagini. Una parte della magistratura e dell’opinione pubblica ritiene però che anche queste intercettazioni hanno un valore: pubblicizzandole si rende noto il malcostume di alcuni ambienti e personaggi. Ma cosa succederebbe se le telefonate degli italiani venissero tutte registrate e rese note? Siamo certi che ne uscirebbe un quadro confortante per tutti? Il compito della giustizia non è moralizzare il Paese ma perseguire reati. Niente di più, e non è poco.

© RIPRODUZIONE RISERVATA