Il Made in Italy
ci tiene a galla

Se valutiamo l’Italia con i parametri di confronto con gli altri Paesi europei abbiamo l’idea del ritardo. Il governatore della Banca d’Italia ha snocciolato i dati e nessuno ha potuto smentire. Lo sanno tutti che siamo su una barca che rischia di affondare, l’unica differenza sta nella prospettiva di uscire dall’euro oppure restarci. La digitalizzazione è uno dei punti di rilancio possibile. Nella classifica europea siamo al quart’ultimo posto. Dietro di noi solo Bulgaria , Grecia e Romania.

Per esempio le banche soffrono non solo per i crediti deteriorati inesigibili, un altro fattore di costo è la bassa produttività legata al ritardo nei processi informatici. Chi accede ai conti correnti on line in Italia è nell’ordine del 40% contro una media euro del 60%. Lo sviluppo di un Paese si misura sugli investimenti nella ricerca e nella formazione di personale qualificato, in Italia siamo nel privato intorno allo 0,8% del Pil, nei Paesi Ocse si viaggia sull’ 1,6%, il doppio.

Anche l’annosa questione degli emigrati è affrontata con il paraocchi. In Italia solo il 13% arriva con una laurea, la metà dell’Unione Europea. Lo straniero senza qualificazione gira a zonzo se non trova lavoro soprattutto in un Paese come il nostro con un tasso di disoccupazione all’11%. Le economie sviluppate cercano forza lavoro con titolo di studio in grado di essere inserita in un ciclo produttivo. Siccome l’Europa ha un indice demografico in calo con un aumento vertiginoso degli anziani, alle aziende fanno comodo gli stranieri, purché siano qualificati. Le porte aperte della Germania ai siriani nel 2015 si sono rivelate un investimento perché in questo Paese arabo l’indice di alfabetizzazione è alto e chi emigrava allora era il ceto medio che aveva una professione. Il valore aggiunto che deriva dall’economia digitale è calcolabile intorno al 5% complessivo, contro la media del 6,6% dell’Unione europea. Di questo passo l’Italia non è più solo il malato d’Europa, rischia di diventare un’isola e di essere messa in quarantena per timore di contagio. Mentre a Roma i partiti di governo cercano di farsi belli in una incessante guerra di logoramento, nei palazzi della finanza mondiale e nelle cancellerie si lavora alle soluzioni di emergenza in caso di default e di uscita dall’ euro. Valga per tutti un dato: per i titoli italiani di Stato a cinque anni il differenziale, il cosiddetto spread, è superiore a quello della Grecia.

Ma allora se andiamo così male come mai siamo ancora a galla? Ci salvano le famose quattro A: arredamento, abbigliamento, alimentazione, automazione più il turismo. Se disaggreghiamo i dati nazionali e li riferiamo alle aree geografiche di riferimento scopriamo che la media complessiva nel Nord Italia supera i livelli europei e questo spiega perché l’Italia è il secondo esportatore dopo la Germania.

L’industria ha bisogno per i prossimi cinque anni di 236 mila lavoratori con profili di specializzazione e non riesce a trovarli. Un paradosso. Ditte che cercano falegnami carpentieri, saldatori e non li trovano. Questa parte virtuosa non riesce più a sopportare il peso di un Paese che grava sempre più sui ceti produttivi. Crescono i costi sociali della parte improduttiva ed al contempo non si trovano risorse per rilanciare le aziende. Illudere con la promessa di maggiore deficit è grave. Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi, l’ha teorizzata con «espansione recessiva». Aumentano talmente i tassi del debito che di quello che si guadagna con la crescita, non resta niente in tasca. Lo si deve spendere negli interessi. Per ridurre il debito c’è una sola via: tirare la cinghia. Ma nessuno lo vuol dire agli italiani.

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