Il Quirinale, baluardo
democratico delle regole

La «Cronaca di una crisi annunciata» ha avuto alla fine, dopo le incertezze di molti e a dispetto delle contorsioni del leader della Lega, il suo esito naturale e istituzionalmente più ragionevole: Giuseppe Conte si è dimesso, recandosi - come prescrive la Costituzione - dal presidente della Repubblica, per rimettere il mandato ricevuto nel giugno dello scorso anno. Ciò che potrebbe sembrare a molti soltanto un valzer rituale (dichiarazione formale del presidente del Consiglio e suo ritorno al Colle) rappresenta un baluardo delle democrazie.

In esse, infatti, la forma non si dissocia mai dalla sostanza: un governo non smette di esistere soltanto perché uno dei ministri dichiara che non ne vuole più sapere. Alla «sostanza» (il venir meno dell’accordo politico) deve sempre affiancarsi la «forma». Le regole – piaccia o non piaccia ad alcuni – sono la salvaguardia per tutti. Adesso cambia la scena: il Quirinale diventa il luogo nel quale le legittime volontà delle parti politiche – che possono prevedere anche insanabili fratture – devono trovare «forma» nel percorso che porterà a un nuovo governo o alle elezioni.

In questa fase delicata al capo dello Stato spetta il compito di «condurre le danze», affinché sia trovata la soluzione più idonea per l’interesse del Paese. È pleonastico aggiungere che ciò implica, da parte di tutti gli attori della vicenda, un grande senso di responsabilità.

Nel nostro ordinamento il capo dello Stato non fa parte dei tre poteri tipici degli Stati di diritto (legislativo, esecutivo, giudiziario). Ciò rappresenta la novità rispetto allo Statuto albertino del 1848, nel quale (all’articolo 5) si sanciva che «al Re solo appartiene il potere esecutivo». Di conseguenza, il governo era «governo del Re». Nella Costituzione repubblicana sono definite e descritte le attribuzioni di tutti i poteri pubblici. Al presidente della Repubblica – in quanto garante dell’unità nazionale – spetta il compito di fungere da punto di equilibrio fra i tre poteri. Evidentemente, il suo ruolo diventa più incisivo proprio nella risoluzione delle crisi. Tra queste, le crisi di governo. È facile immaginare che lo spazio di manovra del Capo dello Stato varii in funzione della complessità della situazione: in presenza di una chiara volontà politica di maggioranza il presidente diventa quasi un notaio delle decisioni già insite nel rapporto tra le forze politiche; all’opposto, qualora si presentino possibili soluzioni alternative, spetterà al presidente della Repubblica fare la scelta più aderente alle esigenze del Paese e più praticabile sul piano politico.

Quali le possibili soluzioni che il Capo dello Stato può indicare? Nell’attuale quadro, delineatosi con la spaccatura tra Movimento 5 Stelle e Lega, Mattarella ha un compito particolarmente arduo. L’ipotesi di prosecuzione della legislatura non è mai da scartare, anzi è (normalmente) quella che viene sempre valutata per prima. Soltanto se dovesse dimostrarsi impraticabile (fosse anche nelle consultazioni preliminari delle forze politiche), il presidente della Repubblica deciderà di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. È percezione diffusa che Mattarella voglia evitare tempi lunghi nel dipanare la crisi. In particolare, è presumibile che avverta le forze politiche (in particolare i due partiti della ex maggioranza) che non può essere ripetuto il lungo stallo verificatosi nella primavera dello scorso anno. Tempi rapidi, dunque, che potrebbero avere un giustificato, ma breve, allungamento soltanto di fronte ad un’ipotesi di accordo per una maggioranza diversa da quella che ha sorretto il governo Conte.

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