La dittatura
della Rete

Siamo oramai diventati tutti cittadini piccoli piccoli, «confusi e felici», tutti residenti a pieno titolo nel «villaggio globale» della rete, che in pochissimi anni ha cannibalizzato ogni possibile alternativa d’interazione sociale. Desideri e progetti di vita individuali sono stati convogliati dentro binari comuni troppo qualunquisti e troppo omologati, riducendo all’osso l’essenza ancestrale dell’uomo che, come ci ha insegnato Claude Lévi-Strauss, maestro e padre indiscusso della moderna antropologia sociale, ha sempre avuto alla base del proprio sviluppo civile il seme dello «stupore».

Con la rete il mondo si è allargato e striminzito al tempo stesso. Allargato di possibilità di collegamenti interattivi interplanetari, solo pochi decenni fa impensabili. Striminzito rispetto all’esperienza umana salvifica fatta di sguardi e di contatti diretti che ha contraddistinto e marchiato a ferro e fuoco l’umanità intera nella propria storia millenaria. Non a caso, da parte di molti sociologi si alzano voci preoccupate che denunciano l’interruzione fra le generazioni di quella trasmissione di saperi, valori, insegnamenti e principi che, a partire dalla famiglia e dalla scuola, aveva sempre assicurato una tenuta idealistica e culturale del tessuto sociale.

Nelle tante disquisizioni autorevoli e scientifiche, ma anche in quelle molto meno autorevoli ed assai più retoriche sull’argomento, sul banco degli imputati c’è oggi soprattutto il fantomatico smartphone. Una ricerca di Telefono Azzurro, condotta nel 2018 su ragazzi nella fascia d’età tra 12-18 anni, ha evidenziato che 17 ragazzi su 100 non riescono a staccarsi da smartphone e social; che 1 su 4 è sempre online; che il 45% si connette più volte al giorno; che il 78% chatta su WhatsApp continuamente, e infine - probabilmente il dato più allarmante - che il 21% si sveglia di notte o non dorme per controllare l’arrivo di eventuali nuovi messaggi. I sintomi della «Smartphone addiction» sono soprattutto ansia e agitazione. Nei casi più gravi anche tremori, vertigini, tachicardia. Uno studio realizzato da ricercatori dell’Università di Seul, presentato al meeting annuale della Royal Society of Public Health, ha dimostrato che l’incapacità di stare lontani da portatili o web, anche solo per qualche ora, modificherebbe la chimica del cervello, provocando «uno squilibrio nei rapporti tra neurotrasmettitori, delle molecole che veicolano le informazioni tra le cellule del sistema nervoso».

I danni di questa crescente mancanza di «presa diretta» con la vita sono incalcolabili. Ascoltare, osservare, comunicare, discutere anche animatamente, desiderare uno sguardo particolare altrui stimolerebbe i ragazzi alla scoperta dell’empatia, dell’immedesimazione nell’altro che è sempre ricerca di sé, contribuendo in modo insostituibile a dare loro, nel periodo più delicato e formativo dell’esistenza qual è quello dell’adolescenza, maggiore fiducia in se stessi e forza di reazione di fronte alle difficoltà, oltre ad un altrettanto importantissimo sviluppo di sentimenti solidaristici.

La «dittatura golosa e sorridente» della rete sembra avere invece ormai anestetizzato ogni scatto morale d’integrità, ogni reazione, persino ogni indignazione. Non colpisce quasi più, neppure a un vecchio nonno come il sottoscritto, orgogliosamente impegnato a fare da autista e porta zaini alle nipoti, vedere all’uscita dalle scuole, alle fermate degli autobus, nei bar, nelle pizzerie ragazzi e ragazze sempre più isolati dalla realtà fisica, aggrappati all’illusoria partecipazione social offerta da app e amicizie virtuali. Quali che siano allora le visioni filosofiche e le concrete possibilità di incidere sui processi di cambiamento politico, ben vengano movimenti di partecipazione spontanea di giovani e meno giovani, come quello inatteso delle Sardine, disposti a ritrovarsi insieme utilizzando intelligentemente le potenzialità della rete, con l’obiettivo utopistico e meraviglioso di cambiare il mondo.

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