Lo strappo
con l’Europa
non conviene
alla Polonia

Il signor X ha preso la tessera del club, ne è stato a lungo orgoglioso, dalla partecipazione ha ricavato cospicui vantaggi. Poi, di colpo, ha deciso che non tutte le regole del club gli piacciono e che non vuole più osservarle, pretendendo però di continuare a godere dei vantaggi. Non ci vuole uno scienziato della politica per capire che un simile comportamento è inaccettabile. Ed è più o meno quanto la Polonia (il signor X) cerca di fare con l’Unione europea (il club), soprattutto da quando la Corte Costituzionale di Varsavia ha sentenziato che alcuni articoli dei Trattati Ue sono «incompatibili» con la Costituzione polacca e che in certi casi «le istituzioni Ue agiscono oltre l’ambito delle loro competenze».

Su questo tema ieri, al Parlamento europeo, il premier Morawiecki ha litigato con la Von der Leyen, presidentessa della Commissione europea. Ed è probabile che altri litigi animeranno, giovedì e venerdì, l’imminente Consiglio europeo. Al di là delle opposte retoriche, ora siamo allo stallo: la Ue minaccia di non concedere la quota nazionale del Recovery Fund (36 miliardi) se la Polonia non ritirerà le riforme che hanno mutilato l’indipendenza del sistema giudiziario e non annullerà il pronunciamento delle Corte Costituzionale. Il Governo polacco parla di ricatto, apre sulla magistratura e si irrigidisce sul resto.

Le cose, però, non sono così semplici. La Ue di fatto non può cacciare la Polonia (l’articolo 7, ovvero l’espulsione di un Paese membro, richiede un voto unanime, che non ci sarà mai) e nemmeno ha l’interesse a farlo, perché rischierebbe di innescare (soprattutto dopo la Brexit) un processo dall’esito incerto. Ancor meno interessata a una Polexit è la Polonia, che si è ben gestita ma che indubbiamente deve alla Ue parte non secondaria dell’attuale benessere: nel 2004, quando entrò nell’Unione, Varsavia aveva un Pil annuo di 220 miliardi di euro, oggi è a 513. Però è vero che la sentenza polacca apre una crepa nel muro portante della Ue. Se di volta in volta un Paese decidesse che questa o quella regola non gli si confà, che cosa resterebbe della politica comunitaria?

In realtà, qualcosa di simile succede tutti i giorni. Pensiamo alla Germania, che costruisce il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia contro tutte le politiche e i pronunciamenti della Ue. E a volte le questioni di principio servono ad aprire trattative su questioni assai più pratiche. Il boom polacco, per esempio, ha avuto una base importante nell’industria del carbone, che nel 2019 copriva l’80% dell’energia elettrica consumata nel Paese. Ora la Ue discute di transizione energetica e di fonti alternative e Varsavia teme un devastante salasso finanziario. Il Governo polacco, insomma, è il gilet giallo della Ue e potrebbe usare la discussa sentenza sui Trattati come grimaldello per aprirsi un varco più conveniente nelle norme energetiche di cui si discute.

I polacchi (che peraltro approvano al 70% l’adesione alla Ue) sembrano ora più cattivi della media ma forse sono solo i meno astuti. Per restare alla transizione energetica, ci sono le remore della Francia verso l’idea di limitare il nucleare, quelle dell’industria automobilistica italiana, francese e tedesca sui costi del passaggio all’ibrido e all’elettrico, le rivendicazioni di molti Paesi nei confronti delle politiche agricole, e così via. Perché tutti i Governi nazionali fanno grandi proclami, ma quando poi devono convincere i propri elettori…

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