Pd, Letta dovrà
trovare la rotta

C’è di nuovo un Enrico Letta nel futuro del Partito democratico. Dopo che avrà sciolto la riserva, l’assemblea del Pd convocata per domenica lo eleggerà segretario, e questo avverrà necessariamente alle sue condizioni. La prima è che la sua elezione avvenga all’unanimità o quasi, la seconda è che il suo mandato non sia quello di un «reggente» (per il quale non avrebbe neanche sprecato un biglietto aereo Parigi-Roma) ma di un vero segretario che duri da qui al 2023. I capicorrente stanno ancora discutendo ma ormai l’accordo sembra chiuso: Letta non dovrebbe contare sulla sola maggioranza zingarettiana (come volevano gli ex Diesse) ma anche sulla corposa minoranza interna degli ex renziani, e non certo per simpatia nei loro confronti ma perché controllano la maggioranza dei parlamentari.

Quanto al congresso più volte invocato, si potrebbe tenere a breve ma a patto che sia a carattere «tematico», senza cioè comprendere la gara per la segreteria (come voleva Zingaretti). È Franceschini l’uomo che fa da cerniera, insieme a Paolo Gentiloni, l’altro piddino che ha più lavorato per convincere un riluttante Letta ad accettare la proposta: il Pd è in una condizione pessima, con l’ennesimo segretario decapitato (il settimo della sua breve storia), le correnti scatenate l’una contro l’altra, i consensi elettorali in picchiata, una linea delle alleanze in crisi e perdipiù con la sensazione di contare poco nel governo Draghi. Un incubo.

Come è stato possibile convincere Letta che ormai aveva cambiato vita, Paese e anche ambizioni (pare che da SciencePo, la prestigiosa facoltà parigina di cui è direttore, puntasse a qualche prestigioso incarico internazionale)? Probabilmente facendo leva sull’istinto della rivincita che non solo è un moto psicologico ma anche una dinamica della politica. Nel 2014 Enrico Letta, presidente del Consiglio, fu brutalmente rovesciato da Renzi (che voleva prendere il suo posto, come poi fece) e dai capicorrente del partito, tutti d’accordo. Impossibile dimenticare l’ipocrita hastag #enricostaisereno che gli dedicò Renzi alla vigilia dell’accoltellamento, e non c’è chi non abbia negli occhi la scena del gelido passaggio delle consegne tra Letta e il suo successore. Del resto la parola che Enrico ha più volte dedicato a Matteo in questi anni è stata: «Disgusto».

Al netto delle ambizioni personali di Renzi, ammettiamolo, c’era qualche ragione per voltare pagina: il governo Letta era immobile, il povero ministro del Tesoro Saccomanni era continuamente costretto a rimangiarsi provvedimenti già annunciati, le elezioni europee si avvicinavano e i democratici presagivano il disastro a vantaggio di Grillo (e invece fu il trionfo di Renzi col 32%, anche grazie agli 80 euro).

Adesso torna, Enrico, come il Conte di Montecristo: ricco di prestigio internazionale e vendicativo. Vedremo. I problemi del Pd ce l’ha tutti squadernati davanti, toccherà a lui rimettere in mare una barca finita sugli scogli. Primo: come rapportarsi con il governo e con Draghi (e qui Letta è avvantaggiato rispetto a Zingaretti sia perché è un economista sia perché è espressione degli stessi ambienti dell’ex presidente della Bce). Secondo: come gestire l’alleanza coi 5 Stelle che con Conte capo politico si sono rialzati in piedi e proprio a scapito del Pd. Terzo, che poi è il primo vero punto: come ridare al Pd una vitalità politica e una identità che ha smarrito.

A Letta non fanno certo difetto le idee e la cultura. Ma al nuovo segretario serviranno carisma, coraggio, polso fermo e abilità manovriera: ce la farà Enrico il mite?

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