Prescrizione, la giustizia ha bisogno di efficienza

Nel nostro Paese ogni tentativo di riforma della giustizia suscita polemiche talmente accese da evocare «guerre di religione». In effetti, la realtà giudiziaria è composta da variegate associazioni di categorie e ciascuna di esse non rinuncia ad offrire al legislatore i propri «suggerimenti». Tutto ciò, da un lato, è il sale della democrazia ma, dall’altro lato, rischia di pervenire ad indebiti condizionamenti esterni sull’operato legislativo. E ciò tanto più accade nella misura in cui l’associazione di categoria possiede una particolare «influenza» politica. In tale evenienza il rischio che si corre è quello di un’eterodirezione sulla genesi del prodotto legislativo, il quale, in tal modo, può perdere quei caratteri di astrattezza e generalità che lo devono caratterizzare; se si liquidano od anche solo si inquinano i caratteri fondanti dell’attività legislativa si corre il pericolo di coniare enunciati normativi espressione non di un interesse generale ma di un interesse, ben che vada, di categoria.

Se poi tale interesse è mosso dalla volontà di raggiungere un predominio economico o politico la situazione si aggrava; ma anche a voler prescindere da tale considerazione quel che preme rilevare è che in tal modo non si persegue quell’interesse generale ed astratto e, così facendo, si abdica a quel dovere di neutralità nei confronti dei cittadini che il prodotto normativo deve garantire. In tale contesto culturale si inserisce il dibattito sulla riforma della prescrizione. Una commissione composta da autorevoli studiosi e magistrati ha predisposto un testo normativo in cui si prevede la cessazione del tempo di prescrizione con la sentenza di primo grado sia essa di assoluzione o di condanna; tuttavia, per i momenti processuali successivi, si introduce (fatta esclusione per i reati puniti con l’ergastolo) una causa di improcedibilità laddove la definizione del giudizio non avvenga entro un determinato termine calcolato autonomamente per ogni singolo grado del processo, affidandone la diversa modulazione derivante dalla maggiore gravità del reato ad ipotesi di proroga del termine ed al vario operare delle cause di sospensione della prescrizione, in grado di incidere anche sui diversi tempi di improcedibilità.

A prescindere dalla disciplina di dettaglio normativo occorre evidenziare come, sul punto, immediatamente siano «scattate» le diverse opinioni critiche le quali non contestano l’impostazione bensì manifestano timore che la cronologia ordinaria del processo non sia tale da consentirne una definizione in tempi utili. Di qui la richiesta di prolungare i termini di prescrizione ovvero i diversi termini richiesti per il maturarsi dell’improcedibilità, nell’ottica di evitarne il possibile decorso. Detto in altro modo, siccome l’inefficienza del sistema genera la possibilità che quei termini decorrano, se ne chiede un prolungamento. Si prospetta così una correlazione tra i tempi del processo e diritto alla prescrizione o all’improcedibilità dell’azione. In altre parole, lo Stato addossa all’imputato il rischio derivante dall’inefficienza del sistema. Si tratta di un’ideologia finalistica del processo francamente non accettabile. Ciò, però, si badi non significa che il risultato processuale non sia un valore da garantire anzi, il problema è semmai l’individuazione del modo attraverso cui lo si tutela; modo che deve risultare compatibile con i principi dell’ordinamento giuridico che spesso risultano essere diretta espressione dello ius naturale.

Se così è, il tema della definizione del processo entro un determinato termine deve essere garantito attraverso delle riforme strutturali ed ordinamentali; occorre avere il coraggio di irrobustire interventi di velocizzazione del processo. E ciò può e deve essere tutelato non attraverso una limitazione delle garanzie ma, al contrario, tramite una decisa opera di depenalizzazione e deprocessualizzazione. In tal modo l’intervento del giudice penale verrebbe riservato solo a quei casi in cui il disvalore delle condotte effettivamente lo necessita. Tutto ciò però, postula l’abbondono della visione del giudice penale quale «bonificatore sociale» per tornare alla visione tradizionale della giurisdizione quale strumento neutro di accertamento di eventuali reati. Cesserebbero in tal modo spinte panpenalistiche del diritto e si raggiungerebbe una maggiore efficienza anche in omaggio al principio costituzionale della «ragionevole durata del processo».

In caso contrario ancora una volta si andrà a generare un prodotto legislativo che posterga i diritti del singolo rispetto a quelli della collettività, non comprendendosi che quei diritti possono e debbono convivere. Solo in tal modo si potrà pervenire alla genesi di una disciplina che si allinea con i valori costituzionali a cui tutti, nessuno escluso, devono osservanza.

*Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli Studi di Bergamo

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