
Quella che sta per iniziare è una vera e propria sfida : nelle rocce dalle caratteristiche uniche delle Isole Lofoten , nella Norvegia settentrionale, una spedizione italiana va in cerca di idrogeno naturale , ossia dell'idrogeno che si forma naturalmente nelle profondità della crosta terrestre.
“Durante la spedizione alle Isole Lofoten cercheremo idrogeno naturale in rocce di una crosta terrestre che ha origini molto profonde ed emerse in miliardi di anni di storia geologica. Le rocce su cui camminano migliaia di turisti hanno infatti fino a 2.6 miliardi di anni e si sono originate a circa 50 chilometri di profondità ”, osserva Alberto Vitale Brovarone, che guida la spedizione il gruppo di ricerca italiano DeepCarbonLab dell’Università di Bologna . Le rocce delle Isole Lofoten sono particolarmente interessanti, aggiunge, perché “nonostante la loro lunga evoluzione, preservano le loro caratteristiche profonde , e in particolare la loro natura povera di idrogeno. Infatti, date le alte temperature, i fluidi geologici ricchi di idrogeno come l’acqua tendono a non resistere nelle parti più profonde dei continenti”.
I ricercatori sanno che “cercare e trovare idrogeno molecolare in queste rocce è dunque difficile ed una sfida che stiamo preparando da ormai due anni . Trovarlo metterebbe però in discussione ciò che sappiamo attualmente sul ciclo globale dell’acqua e sulla disponibilità di acqua ed energia per la vita durante la storia della Terra. Il nostro progetto rientra dunque in un’esplorazione di nuove idee sulla storia della vita e della Terra attraverso l’idrogeno e l'acqua”.
L’ idrogeno è l’elemento più abbondante nell’Universo ed è comune nei fluidi che scorrono nella crosta terrestre, ad esempio nelle molecole d’acqua e nei minerali, “ma nella sua forma molecolare – osservano i ricercatori - l’idrogeno è anche una risorsa energetica fondamentale per la vita , dalla sua nascita almeno 3.8 miliardi di anni fa fino a oggi, e in un futuro energetico sostenibile . Una volta bruciato, infatti, l’idrogeno molecolare produce solo acqua”.
Per questo negli ultimi anni le ricerche del DeepCarbonLab dell’Università di Bologna si sono concentrate sulla formazione di idrogeno molecolare nella crosta terrestre, dalle Alpi fino alla Mongolia e la Groenlandia. “Nei nostri studi – dicono i ricercatori - abbiamo anche investigato come, in presenza di carbonio , l’idrogeno possa trasformarsi in metano (CH4), una molecola fondamentale per la vita ma con un forte impatto sui cambiamenti climatici ”.
Giorno 10 – Fine spedizione
Chi portereste in una spedizione in cui si passano 24 ore su 24 insieme, si devono trovare strategie comuni, e si è spesso affaticati?
Oggi è stato l’ultimo giorno di lavoro sul campo. Nei passati dieci giorni, tra freddo, pioggia, sudore e qualche raggio di sole, abbiamo diviso strategie, pasti, discussioni, scoperte, e tante idee. Andiamo anche condiviso il peso dei campioni nello zaino e la pazienza nei momenti di stanchezza. Per me è andata benissimo, e lo spero anche per gli altri.
Ella, Orlando, Thomas, Claudia e Jacopo. Nelle nostre vite abbiamo scelto di studiare la geologia del pianeta Terra. Jacopo è con noi per documentare la spedizione. È un geologo diventato fotogiornalista scientifico. Ha occhi diversi da noi e ha viaggiato in tutto il mondo per una vita. È come un terzo occhio, esperto, mi permette di non badare a tante cose. Thomas, tecnico del nostro laboratorio a Bologna, è un attento e infaticabile osservatore. Tiene tutto in ordine e anche lui mi permette di non badare a molte cose. Orlando mi dà retta da ormai diversi anni, e purtroppo tra non molto verrà il momento di salutarci. Prenderà la sua strada. Lui fa, crea, disfa, rifà, scopre. Un esploratore nato. Se dovete estrarre un campione incastonato nella roccia da miliardi di anni, è il vostro uomo.
Per molto tempo la geologia, come molte scienze, è stata un club privato maschile. Ancora oggi nei dipartimenti di accademie e centri di ricerca di tutto il mondo, il numero di geologi è largamente superiore a quello delle geologhe. Ci sono sicuramente tanti motivi, molti dei quali però poco ovvi. Le cose stanno cambiando. Ella e Claudia hanno aggiunto moltissimo a questa spedizione e a loro auguro una brillante carriera nella scienza. Claudia dedica molto tempo al ragionamento e alla logica. È padrona del brainstorming e con imprecazioni portoricane ci tiene anche in riga. Ella ha da poco iniziato il dottorato. Viene da lontano – cosa non per forza facile alla sua età. Durante questa spedizione ci racconta della sua storia, dal Vietnam agli Stati Uniti, per poi approdare a Bologna per studiare con noi. Ho temuto che questa spedizione su terreni complessi non fosse facile per lei come inizio. Mi sbagliavo. Di fronte a noi ci saranno due anni e mezzo di duro lavoro e sono sicuro che andrà molto molto bene. A me basterà fare in modo che possa lavorare nelle migliori condizioni.
In questa spedizione ho fatto fatica. Gli ultimi anni sono stati molto faticosi e con un grosso carico di lavoro. Il finanziamenti dello European Research Council come il mio sono un’esperienza bellissima, ma richiedono molta energia, e dopo quattro anni molto intensi sento che sta esaurendo. Sento l’esigenza di dovermi fermare a ragionare e studiare cose nuove che attualmente mi impediscono di andare a fondo con le mie idee. Sento anche bisogno di tornare a casa dalla mia famiglia che spesso questo lavoro mi porta a salutare per diversi giorni. Esplorare il mondo senza di loro non è facile, e non potrei essere qui senza che qualcuno a casa si facesse carico di non poche fatiche.
Dopo una mattinata passata a imballare i campioni e a concludere i preparativi per la partenza, il pomeriggio abbiamo fatto osservazioni in una cava con rocce meravigliose e con qualche raggio di sole. C’era un senso di leggerezza. La spedizione si conclude così. Grazie a chi mi ha accompagnato e a chi mi aspetta a casa.
Giorno 9 – Il carbonio
Un geologo è in sostanza un detective del pianeta. Cerchiamo tracce, a tutte le scale, in ogni modo possibile. Cerchiamo tracce di processi antichissimi ma che ci aiutano a capire al Terra del presente e del futuro. Stiamo cercando tracce di fluidi che milioni o miliardi di anni fa sono stati prodotti nelle rocce delle Lofoten, o che le hanno attraversate. Come fareste per cercare tracce di processi così antichi dentro una roccia? E come fareste per dimostrare come si sono formate quelle tracce e che hanno davvero a che fare con l’idrogeno naturale?
L’idrogeno è un elemento molto schivo, si muove velocemente e non è ancora chiaro quali tracce lasci nelle rocce. Come un furfante che entra in una gioielleria a ruba diamanti senza lasciare alcuna impronta digitale. Ma cercando di rubare i diamanti commetterebbe un grande errore. In natura, a quasi tutti gli elementi non piace stare soli. Si combinano per formare molecole, fluide o solide – come i minerali – che quasi sempre contengono più di un elemento. L’idrogeno è un un gran giovialone e, con alcuni elementi, va davvero a nozze. Tra questi il carbonio. Quando c’è carbonio nei paraggi, l’idrogeno socializza. È così che, con tempi geologici sufficienti, nasce un tipo speciale di metano –una molecola composta da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno. Ma a differenze dell’idrogeno, il metano non è per nulla scaltro. Lascia tracce, rende visibili le impronte digitali dell’idrogeno così come fa l’inchiostro. Tracciando questo metano speciale, tracciamo l’idrogeno.
Oggi siamo a caccia di carbonio, un ottimo reagente per l’idrogeno. Cerchiamo rocce ricche di carbonio che ci possano dare informazioni sulla circolazione di idrogeno nella storia della Terra. Abbiamo usato questa strategia in lungo e in largo in altre parti del mondo e con grande successo. Quest’area della Norvegia ci mette in difficoltà, quasi tutto il territorio è coperto da vegetazione o alterato. Per nostra sfortuna, dal paesaggio verdeggiante spunta una piccola macchia bianca, una cava di pietrisco scavata nel marmo. Il marmo è fatto di carbonato, un minerale ricco di carbonio. Con un po’ di fortuna riusciamo a entrare –con permesso del proprietario– e fare ottime osservazioni. A compensare la fortuna, nel pomeriggio piovoso ci bagniamo dalla testa ai piedi, ma la giornata è molto produttiva e abbiamo voglia di tornare a casa a riposarci.
Questa sera è arrivato il ragù, molto ragù.
Giorno 8 – Sotto la superficie
Nella parte centro occidentale dell’isola di Langøya, in Norvegia, si può osservare una zona più pianeggiante rispetto alle altre. Ci sono diverse possibili spiegazioni geologiche per questa morfologia, ma questa volta è dovuta all’erosione. Ma perché l’erosione è più forte in questa zona? O è iniziata prima lì rispetto ad altre zone? La risposta nel nostro caso è che le rocce presenti in questa zona si alterano più facilmente e velocemente di quelle circostanti, e questo fa sì che, una volta alterate, vengano sgretolate più velocemente dall’erosione. Ma per noi, l’alterazione è un problema. Non possiamo fare affidamento su una roccia alterata per ricostruire la storia passata della Terra, magari una storia di miliardi di anni fa. Dobbiamo andare sotto la superficie. Un po’ come togliere la prima fetta di un formaggio rimasto troppo in frigorifero.
Ricostruire pezzi della storia della Terra attraverso la memoria delle rocce è difficile. Richiede moltissimo studio, spesso anche fatica fisica, e la capacità a gestire sistemi complessi. Per farlo è necessario integrare conoscenze trasversali a molte scienze, dalla fisica alla chimica e sempre di più anche la biologia. Dati i tempi a cui avvengono i processi geologici e dato il gran numero di incognite sulla storia del passato, non è sempre possibile riprodurre in laboratorio i processi naturali e l’interpretazione è fondamentale. Per questo motivo, spesso la geologia non viene considerata una scienza nobile. Io trovo invece che una scienza che debba trovare soluzioni attraverso la deduzione e dovendo anche, nonostante le molte incognite, convincere colleghi di tutto il mondo sulla bontà di un’interpretazione sia forse la più pura delle scienze.
La giornata di oggi è mentalmente faticosa. Le rocce alterate non ci permettono di vedere bene quello che cerchiamo. Con l'aiuto di StreetView, che per un geologo è preziosissimo perché permette di vedere in anticipo se ci sono affioramenti di roccia lungo una strada, riusciamo a raccogliere qualche campione ben preservato. In altri invece è solo tempo perso, ma anche se le rocce sono alterate ci è possibile raccogliere qualche dato, in particolare sulle proprietà magnetiche delle rocce. Quel minerale di ferro tanto importante per noi, la magnetite, ha forti proprietà magnetiche e non si altera facilmente. Quindi anche se la roccia è alterata, la magnetite è ancora lì. Per valutare la presenza di magnetite nella roccia usiamo un suscettivimetro, da noi chiamato 'Sushi', uno strumento che misura il segnale magnetico della roccia. La giornata passa attraverso qualche centinaio di “chi ha Sushi?”, e quando Sushi ci da un valore alto, vale la pena cercare di andare oltre la superficie, dedicando anche ore per rimuovere l’alterazione e raggiungere un campione fresco.
In questa giornata dalle poche soddisfazioni, Jacopo, il fotogiornalista che segue le nostre spedizioni per fare magnifiche foto e video, è sottoposto a lunghi tempi morti. Immaginate di dover fare foto a cinque persone che prendono a martellate un masso per ore. Servono pause di riflessione. Elabora però un ottimo piano per la cena: farà il ragù. E su questo ragù riponiamo grandissime speranze di redenzione per chiudere la giornata. Ma neanche la redenzione oggi è dalla nostra parte. Per il lunedì della Pentecoste, i supermercati in Norvegia sono chiusi. Niente ragù. Finiamo a mangiare pizze surgelate comprate in un piccolo alimentari. Una ha sopra il pollo, che almeno ci permette di spiegare a chi del gruppo è da poco in Italia che certe cose proprio non si fanno.
Giorno 7 – Le lenticchie
Immaginate montagne altissime che emergono dal mare, in ogni direzione. Pareti verticali lisce per chilometri e chilometri. Ora immaginate di dover raccogliere tra queste montagne di rocce il campione che racchiuda i segreti di una nuova scoperta. Quale prendereste? Se un numero significativo di frammenti di roccia contenessero quel segreto, quasi certamente non sarebbe più tale. Qualcuno lo avrebbe già scoperto da qualche anno, o da svariati decenni. Qui alle Lofoten stiamo cercando tracce di un processo che è sfuggito agli scienziati in diverse parti del mondo, e di cui stiamo scoprendo i segreti soltanto negli ultimi anni, l’idrogeno naturale. Non sappiamo quale tra quel quasi infinito numero di possibili pezzi di roccia possa darci delle risposte, ma siamo qui cercando di fare il possibile per trovarlo. Non è facile neanche per noi richiede un grande sforzo intellettuale, oltre che fisico.
Oggi è un giorno di trasferimento. Ci spostiamo dalla zona di Ramberg verso nord, partendo verso le 10:30 del mattino. Ci aspettano duecentoquaranta chilometri e diversi fiordi da attraversare che, con tre o quattro stop per campionamento lungo la strada, ci porteranno a destinazione soltanto verso le 20:30 di sera. Ci concediamo una lunga pausa al museo dei vichinghi di Bøstad, molto bello. Ci portiamo a casa una foto di gruppo vestiti da vichinghi che certamente appenderò in ufficio.
Le ore di strada sono tante e ci permettono di parlare di tante cose. Tra queste parliamo della fortuna nella scienza. È legittimo parlare di fortuna? O le grandi scoperte e le grandi carriere scientifiche sono un risultato premeditato e meritato che solo le grande menti posso raggiungere? Non conosco la storia di molti scienziati o scienziate, ma conosco la mia. Non so se sia più giusto chiamarla fortuna, caso, coincidenza o un insieme di queste cose, ma sicuramente molte cose non sono andate come mi aspettavo, e questi imprevisti si sono rivelati sorprendentemente decisivi sui diversi passi fondamentali della mia carriera. E hanno a volte coinciso con la nascita di grandi interessi nella comunità scientifica, come per l’idrogeno naturale, che solo pochi anni prima non avrebbero probabilmente avuto un grande impatto. Avrei preferito poter dire che tutto fosse stato attentamente progettato.
Come scelgo il pezzo di roccia giusto? Durante questa spedizione, ho svelato al gruppo il mio segreto. Mangio le lenticchie che, come tutti sanno, portano molta fortuna. Applico poi un rigoroso metodo scientifico che mi permetta di testare ipotesi di lavoro innovative. Molto spesso ne derivano eccellenti risultati che mi danno grandi soddisfazioni personali. Altre volte invece non funziona, ed è così che nascono scoperte strabilianti a cui nessuno, tantomeno io, avrebbe mai pensato. Nel dubbio, l’altro giorno ho mangiato le lenticchie, che male non fanno.
Giorno 6 – Fine prima parte
Quando si lascia un luogo lontano prima di tornare a casa si verifica di non aver dimenticato niente. Il caricatore del telefono, un ultimo check sotto il letto. Per una spedizione geologica, il pensiero si estende ai campioni e ai dati raccolti sul campo. Il nostro lavoro in quest’area delle Lofoten si conclude oggi e domani ci sposteremo verso un’altra zona, più a nord. È una giornata di verifica: cosa possiamo aver dimenticato? Il meteo è dalla nostra parte e decidiamo di fare un momento di discussione all’aria aperta per utilizzare al meglio le ultime ore.
La geologia dell’idrogeno naturale è in sostanza una disciplina nuova. Sappiamo molto poco e ci sono buone probabilità che i nostri lavori, così come quelli di altri scienziati che stanno esplorando il tema, possano delineare delle direzioni di ricerca per il futuro, nel bene o nel male. Avendo pochi punti di riferimento, è molto facile sbagliare ed è importante confrontarsi e sfruttare le intuizioni di tutte le menti a disposizione. Tra noi ci sono, oltre a me, tre recenti dottorati e una dottoranda, con competenze, personalità e origini molto diverse. Su un tema nuovo come l’idrogeno naturale, l’esperienza non è per forza determinante e la creatività di menti più giovani e libere da preconcetti diventa molto preziosa.
È l’occasione perfetta per fare un passo avanti. Da una buona discussione ne usciamo con nuove idee su come testare alcune ipotesi, e ci dirigiamo in un ultimo affioramento. Un piccolo promontorio di rocce chiare e ben levigate dal mare. Dopo un paio d’ore di osservazioni concludiamo che, questa volta, non siamo stati fortunati e ci dovremo accontentare di quanto abbiamo già raccolto. Ma terremo gli occhi aperti.
Questa ultima sera nella zona di Ramberg ci porta anche a salutare il gruppo di colleghi e amici dell’università di Oslo che hanno lavorato nella stessa zona in questa settimana, anche se tu temi molto diversi. Ci concediamo una bella cena in un ristorante locale, mangiando ottimi piatti di pesce e parlando di avventure e ridendo di battute geologiche che per fortuna nessuno nel ristorante capisce. Domani ci aspetta una lunga giornata, con diversi stop di campionamento lungo la strada e una doverosa pausa al museo dei vichinghi delle Lofoten.
Giorno 5 – Ferri vecchi
L’esplorazione degli ambienti naturali non può limitarsi ai percorsi battuti o a luoghi accessibili. Un vecchio articolo di oltre cinquanta anni fa descrive rocce particolari e diverse da quelle finora da noi osservate alle Isole Lofoten. Purtroppo però, queste rocce si trovano nella punta più meridionale e inaccessibile dell’ultima isola delle Lofoten, lontana da qualunque strada e poco raggiungibile anche a piedi dall’ultimo centro abitato, il villaggio di Å. Decidiamo quindi di cercare una barca che ci porti fino ai luoghi dei nostri desideri, e che ci venga a riprendere a fine giornata carichi di doni poco costosi ma molto pesanti. Sarà il giovane Alexander a rendere tutto questo possibile, guidando una barchetta di metallo sulle onde di un mare moderatamente impetuoso. Dalle ore 9 del mattino fino alle 5:30 del pomeriggio, saremo soli in una splendida baia sulla punta più estrema delle Isole Lofoten.
È ancora una volta il ferro a guidare le nostre ricerche di idrogeno naturale sul campo, un ferro molto antico. Ma questa volta attraverso percorsi logici diversi da quelli seguiti nei giorni precedenti. Sono pensieri difficili da comunicare in maniera semplice e che si basano sulla predisposizione dei geologi a ragionare sull’evoluzione dei sistemi naturali complessi. In sostanza, se due rocce diverse attraversano un processo simile, i risultati di quei processi saranno necessariamente diversi. E prevedendo i due risultati per lo stesso processo scatenante, si può dimostrare che quel processo è avvenuto. Il nostro modello si basava su un solo esempio, e siamo andati a cercarci il secondo. I processi che studiamo avvengono alla scala microscopica e, purtroppo, avremo una risposta solo di ritorno in laboratorio.
Il villaggio di Helle fu fondato da pescatori che, nel tentativo di emanciparsi dalle richieste dei proprietari terrieri, decisero di spostarsi in una piccola baia remota all’estremità delle Lofoten. Crearono una comunità di pescatori e agricoltori che visse per lungo tempo in maniera autosufficiente. Con il secondo dopoguerra e il crescente miglioramento delle infrastrutture nel resto della Norvegia, gli abitanti di Helle decisero di abbandonare il villaggio –l’originale pescheria di Helle fu spostata interamente e oggi ospita un ristorante nel paese di Å. Da allora, di Helle rimangono pochi resti trai i quali un gran numero di barre e chiodi di ferro arrugginito che spuntano da massi, pareti di roccia e vecchie travi ancora preservate. Chissà quante famiglie ci hanno abitato. Chissà come ci avremmo abitato con Elisabetta e Lucio e se saremmo stati tristi ad abbandonarlo per sempre.
Il ferro ci accompagna fino a sera. Il ritorno alle auto a fine giornata ci riserva la sorpresa di una gomma a terra. Una grossa vite spunta dal pneumatico posteriore sinistro. Niente ruota di scorta, se non un kit di riparazione che pare del tutto inefficace. Inizia quindi una lunga spola per riportare tutti a casa con la seconda auto, in attesa dei soccorsi. Ci vorranno circa tre ore. Guidando mi concedo la telecronaca della debacle della Nazionale Italiana di calcio, proprio contro la Norvegia.
Giorno 4 – Il turno di notte
La spiaggia di Kvalvika di trova sulla costa nord delle Lofoten. È un luogo turistico decisamente spettacolare. È in una baia circondata da alte pareti di roccia e si raggiunge con un sentiero verdeggiante. La sabbia è chiara dal un lato della spiaggia e scura dall’altro. Questo è dovuto alla presenza, proprio su un bordo della spiaggia, di un piccolo giacimento di un minerale chiamato magnetite, nero e molto pesante, che quando viene eroso dalla roccia non ama essere trasportato dall’acqua e si accumula sulla spiaggia adiacente. La magnetite è un ossido di ferro, e si chiama così perché ha forti proprietà magnetiche. Una calamita naturale. In questa zona delle Lofoten ne esistono diversi giacimenti che, si narra, nel passato ingannavano le bussole dei pescatori portandoli fuori rotta.
Molta della storia geologica dell’idrogeno naturale si basa sul ferro. Quando il ferro si ossida per interazione con l’acqua – a grandi linee lo stesso processo che forma la ruggine – l’ossigeno della molecola d’acqua viene preso dal ferro e l’idrogeno rimane libero, nella sua forma molecolare e fonte di energia. In un modo nell’altro, dei grandi accumuli di magnetite diventano quindi di interesse per la nostra ricerca. Nel caso delle Lofoten, i depositi di ferro sono di origine magmatica. In altri luoghi al mondo, giganteschi depositi di ferro sono invece legati a processi di accumulo di minerali di ferro all’interno dei sedimenti, in particolare in un periodo della storia molto lontano, tra l’Archeano e il Paleoproterozoico. A quei tempi le acque degli oceani erano molto ricche di ferro che precipitava sotto forma di minerali combinandosi con l’ossigeno prodotto da microorganismi –i padroni del mondo a quei tempi– chiamati cianobatteri.
Il lavoro di campo di un geologo si fa di giorno. Ci serve luce per poter vedere minerali, rocce e panorami. Ma quando ci si trova nell’estate artica, che sia giorno o notte non fa molta differenza. E se il giorno è piovoso e le previsioni danno miglioramenti serali, tanto vale prevedere di fare il turno di notte. È così che in serata ci dirigiamo verso la spiaggia di Kvalvika, scollinando a piedi un piccolo passo, alla ricerca della magnetite. Da buoni geologi, non ci faremo ingannare dalla nostra bussola. Ci godiamo la bellezza del luogo chini sulle rocce, sotto lo sguardo stupito di intrepidi bagnanti sfidano seminudi le acque artiche, riscaldati dal sole di mezzanotte.
Giorno 3 – Il peso della scienza
Esplorare altri corpo celesti, che siano pianeti, satelliti, asteroidi o comete, è probabilmente il sogno di molte persone, e certamente di molti geologi. È quasi certo che nell’universo non esistano corpi analoghi alla Terra; anche se simili, la probabilità che altri oggetti nel Cosmo abbiano gli stessi minerali della Terra è prossima allo zero. Verrebbe da assicurarsi di mettere in valigia tutto il necessario per essere ben coperti, ma io come geologo forse cercherei di partire con la valigia vuota per poter riempirla il più possibile di rocce al ritorno.
La carta geologica della zona di Nusfjord, lungo il lato meridionale delle Lofoten, mostra una grande macchia con un solo colore. Questo vuole dire che in quella zona si trova un solo tipo di roccia. La nostra giornata prevede di esplorare questa grande macchia di colore fatta da una roccia chiamata anortosite. È una roccia formatasi dal raffreddamento di un magma nelle profondità della crosta e che da quasi un miliardo di anni non si forma più sulla Terra. Ci interessa capire se in queste rocce possa esserci idrogeno naturale nonostante la loro natura –in teoria– molto povera in idrogeno.
È proprio per questa natura povera in idrogeno che anche il mio amico Luca, professore all’Università di Oslo, studia questi affioramenti di roccia da oltre dieci anni, andando a caccia di terremoti fossili. Le rocce povere di idrogeno come queste anortositi sono molto dure e resistono alla deformazione della crosta terrestre. Ma quando non ce la fanno più si spaccano generando terremoti. Luca ci mostra le tracce di terremoti di oltre 400 milioni di anni fa, “fossilizzati” all’interno di queste rocce. Discutiamo di qualunque dettaglio o incertezze nei nostri modelli interpretativi ci disturbi il sonno.
Guardare la stessa roccia per una giornata intera può stancare, ma ci può permettere di concentrarci sulla selezione di due, massimo tre campioni ben scelti per le nostre ricerche, così da non appesantirci gli zaini e non renderci la vota troppo complicata per portarli fino al nostro laboratorio all’Università di Bologna. Dopo pochi minuti sul campo, però, ci accorgiamo che quella macchia di colore omogenea “sulla carta” non è realmente così omogenea. Contiene una grandissima varietà di rocce simili tra loro se non per piccole sfumature che rendono ogni metro quadrato un caso a sé. Piccole differenze con grandi implicazioni sul nostro lavoro. I due o tre campioni previsti diventano presto una quindicina, tutti etichettati e schedati nei nostri quaderni di terreno e riposti nei nostri zaini.
Nelle notti dell’estate artica non fa buio. Forse non ci accorgeremmo della mancanza della Luna nelle nostre notti, se non fosse per un pensiero rivolto alle sue anortositi. Molte delle parti della Luna che vediamo bianche sono fatte di anortositi. Chissà quanto sono diverse tra loro e chissà quanti campioni vorremmo raccoglierne durante una giornata sul campo, prima che la valigia diventi troppo pesante.
Giorno 2: Le cicatrici della crosta terrestre
Farebbe uno strano effetto poter camminare nelle profondità della crosta terrestre, un po’ come molti hanno immaginato leggendo 'Viaggio al Centro della Terra'. E farebbe un effetto ancora più strano poterlo fare nella crosta profonda di una Terra di ere geologiche passate, che non c’è più. Noi però siamo geologi e la cosa non ci stupisce più di tanto, e facendo colazione non abbiamo nessun timore ad affrontare questa sfida di lì a poche ore di distanza.
Semplicemente siamo abituati alle meraviglie della tettonica a placche, che ci permette di trovare in superficie rocce profonde e antichissime, senza doverci calare in un buco senza fine. Non c’è nulla da temere. La nostra giornata inizia guardando rocce vecchie di qualche miliardo di anni e formatesi a circa 20 o 30 chilometri sotto la superficie terrestre, che al tempo era principalmente popolata da forme di vita unicellulari. Quello che oggi la geologia ci permette di capire ci dice anche queste rocce rimasero a quelle grandi profondità fino a circa 200 milioni di anni fa, quando iniziò ad aprirsi l’Oceano Atlantico. Quelle rocce videro per la prima volta la luce del sole dopo circa un miliardo di anni dopo la loro nascita, e in superficie trovarono i dinosauri. E oggi noi le possiamo finalmente capire.
L’anno scorso, in questo stesso periodo dell'anno, partivamo per la spedizione in Groenlandia. Esplorare l’Artico non è un’esperienza da tutti i giorni, e per certi versi è molto più difficile che camminare nelle profondità di una Terra antica. È stata una delle esperienze più emozionanti della mia vita. Proprio di fronte a noi questa mattina, al di là dell’oceano, c’è la Groenlandia, che quegli stessi 200 milioni di anni, quando iniziò ad aprirsi l’Atlantico, fa si trovava attaccata alle rocce su cui ci troviamo oggi in Norvegia. E ad accomunare i due luoghi è anche il nostro desiderio di comprendere meglio l’idrogeno naturale.
L’idrogeno molecolare, o idrogeno naturale, bruciando produce energia senza inquinare e potrebbe essere una soluzione utile a un futuro energetico più sostenibile. Ha una particolare predilezione per la crosta terrestre dei continenti antichi. La composizione delle rocce che li formano favorisce la formazione dell’idrogeno, e il lungo tempo passato dalla nascita di quelle rocce a oggi ne ha permesso una grande produzione. Ma trovarlo non è affatto semplice, e non tutti i tipi di crosta riescono a produrlo. Qui alle Lofoten ci sono quasi tutti gli ingredienti per supporre che sia, ma forse non proprio tutti ed è per questo che siamo qui.
Nella punta più estrema delle Isole Lofoten c’è un piccolo villaggio chiamato Å (si pronuncia O), come se arrivati lassù avessero esaurito le lettere a disposizione. Sullo sperone di roccia che costeggia il villaggio, dalle immagini satellitari si vedono tre grandi strisce bianche parallele, come un enorme graffio cicatrizzato nella crosta terrestre. È un segno visibile, e non solo agli occhi di un geologo. E come ogni cicatrice, nasconde una storia che viene voglia di sapere. Ma è una storia che dura più di un miliardo e mezzo di anni e che magari racconterò un altro giorno.
Giorno 1 - Partenza
“Dove va di bello?” Mi tolgo la soddisfazione di rispondere “al circolo polare Artico” al taxista che alle ore 3:25 del mattino arriva puntualissimo. Dopo un primo rapido stop per caricare Ella, andiamo dritti in aeroporto. Claudia, Orlando e Thomas arriveranno con un altro taxi.
Le isole Lofoten si trovano a circa 200 chilometri a Nord del Circolo Polare Artico e formano una punta che si disperde dalla terraferma verso il mare di Norvegia. Jacopo è già lì e dalle foto che ci manda è chiaro che non farà molto caldo, nonostante sia la stagione turistica.
Come al solito il check in del materiale da campo prende più del previsto: nelle cassette porta-campioni che ci accompagnano dalla spedizione in Mongolia di due anni fa abbiamo delle radio da campo che non possono viaggiare in stiva.
Alle isole Lofoten cercheremo l’idrogeno geologico che da qualche anno accompagna le nostre ricerche. Lo abbiamo cercato e trovato ormai in molti posti, dagli Usa alla Mongolia e in Groenlandia, proprio dove un geologo potrebbe aspettarselo. Ma questa volta andiamo a cercarlo dove meno ce lo aspettiamo. Trovarlo sarebbe un grandissimo risultato, anche se metterebbe in dubbio le poche certezze che pensiamo di avere su questa sostanza naturale che solo negli ultimi ha attirato l’attenzione degli scienziati per il suo potenziale energetico sostenibile ma di cui sappiamo ancora poco. Arriviamo a destinazione verso le 22, dopo tre voli e cinque ore di macchina. Ci allietano due alci e due renne a bordo strada. Da domani inizia il vero lavoro di campo.
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