Dino Buzzati e Città Alta: «Labirinto fatato di avventurosi vicoli»

Cinquant’anni fa moriva lo scrittore e giornalista: rimase sbalordito dopo la visita alla nostra città. «Ma perché non è famosa in tutto il mondo?».

«Voglio vedere che colore ha la morte», aveva detto alla moglie Almerina, chiedendo uno specchio, la mattina del 28 gennaio 1972. A cinquant’anni dalla morte di Dino Buzzati – proprio quello stesso giorno alle ore 16,20, a Milano – non conosce sosta l’interesse per lo scrittore bellunese e per la cifra letteraria della sua opera. Lo dimostrano anche le continue traduzioni in diverse lingue straniere, francese in testa, e una rinnovata attenzione da parte dell’editoria anglofona che ha riproposto recentemente «Il Deserto dei Tartari» e «La famosa invasione degli orsi in Sicilia», considerati i capolavori, ma pure selezioni di racconti o testi teatrali.

L’approfondimento di questo autore particolare del nostro Novecento tocca poi, oltre alle questioni stilistiche e ai registri nell’evoluzione della scrittura narrativa, il Buzzati scenografo, pittore, librettista. E giornalista al «Corriere». Un cronista un po’ particolare che mescolava ciò che generalmente resta distinto: fantasia e realtà, la prima territorio dei romanzieri, la seconda dei cronisti, come si insegna. Un giornalista i cui pezzi sembravano favole più che resoconti. Qualcosa che in tutta la sua vita e nei suoi testi non venne mai meno, fra effetti stilistici spiazzanti, miscele di tinte fra il surreale e il fantastico.

Con il placet dei direttori che gli consentivano questo modo singolare di fare cronaca e lo difendevano dai caporedattori di turno. In questo cinquantesimo anniversario ricordiamo Buzzati proprio nella veste di cronista e nell’impatto apparentemente casuale con la nostra città: «Io turista straniero, stavo percorrendo la strada che da Milano volge ad Oriente. Dopo una quarantina di kilometri, là dove già incombono da presso sagome di benevoli monti, mi apparve a sinistra una grande città illuminata dal Sole», così Buzzati nell’articolo pubblicato dal quotidiano di via Solferino il 26 giugno 1967 e oggi in diverse antologie. E poco dopo aver sottolineato «il suo turrito, antico e fantasioso profilo» e constatato che «città simili se ne incontrano abbastanza facilmente in altre parti d’Italia, non qui al nord», racconta stupito – visti i primi cartelli con la scritta «Bergamo» e incrociati i primi semafori – la sparizione di quelle «torri, quelle vetuste mura, quelle rocche, quei leggendari palazzi» intravisti da lontano. «Intorno a me erano i tipici edifici ottocenteschi e novecenteschi di una florida e vivace cittadina di provincia come se ne possono incontrare tante.

La cosa mi sembrava strana. Che fossi rimasto vittima di una fata morgana?», continua il pezzo. Il tempo di posteggiare l’auto, prendere un caffè in un bar, salire verso Città Alta ed ecco, dopo il moto di delusione, la sorpresa. «L’ignoranza è una brutta cosa ma in questo caso mi è stata utilissima. Mi ha permesso cioè di godere una quasi inverosimile, quale nessuna altra città al mondo consente, che io mai sappia: da un mondo consueto e banalmente moderno, passare di colpo, appena varcata una antica porta, nella più sfrenata e lirica fantasia dei lontani secoli».

Continua il testo: «Di qui, gli stabilimenti, le aziende, le ditte, gli uffici, i cementi, gli ingorghi nevrastenici, l’affanno, lo strepito, la velocità; di là, mantenuto miracolosamente intatto (segno che non a tutta la cultura la città è indifferente) un labirinto fatato di avventurosi vicoli chiusi tra solitari palazzi, absidi venerande, muraglioni silenziosi di chiostri, torri, cupole, guglie, aprendosi di tratto in tratto misteriosi varchi, piazzette, piazze, angoli grondanti storie e di favole, scene perfette per sontuosi riti mistici ma anche per incoronazioni o per feste da ballo al chiaro di luna». Così la prosa buzzatiana, che risente di quel realismo magico che da Massimo Bontempelli arriva a Italo Calvino, con maggior aderenza alla realtà nello scrittore bellunese. Realtà che gli fa scrivere a conclusione del pezzo su Bergamo: «Ero pressoché tramortito. Ma come è possibile – chiesi – che un capolavoro simile non sia famoso in tutto il mondo? Non dico come Venezia, ma siamo lì. Dovrebbero arrivare carovane anche dalla Cina e dall’Islanda».

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