Il pianeta ferito, il cambiamento inizia dal territorio

Bergamo Festival Il libro di Matteo Rossi «Capovolgiamo le piramidi» al centro dell’incontro del 3 luglio ad Astino: «Per l’ambiente servono buone politiche, non solo buone pratiche».

«Il tema ambientale è stato, da un lato, istituzionalizzato con l’inclusione nell’Agenda 2030 dell’Onu e in Italia con l’inserimento nella Costituzione. Dall’altro, è stato sussunto dal capitalismo. Credo che la spinta vitale venga innanzitutto dai movimenti, come Fridays for future ci insegna». Così esordisce Matteo Rossi, esponente Pd, presidente della Provincia dal 2014 al 2018, ora del Distretto di economia sociale e solidale bergamasco. Il suo libro «Capovolgiamo le piramidi. Bergamo 2001-2021. Racconti e dialoghi per un altro mondo ancora possibile» sarà al centro dell’incontro di domenica (ore 18) ad Astino per Bergamo Festival.

Matteo Rossi raccoglie le testimonianze di persone con cui ha condiviso il proprio percorso, intrecciando storia personale e collettiva, locale e globale. Il libro nasce non solo dall’occasione dell’anniversario del Social Forum di Genova, ma anche dalla convinzione che il modello di ripartenza scelto da Bergamo possa avere l’ambizione di proporsi non solo a livello locale, vista l’eco internazionale della prima fase della pandemia nella Bergamasca. L’autore rivive l’impegno politico, l’incontro con il mondo cattolico e il dialogo con i ragazzi del movimento Fridays for future, raccontando di un pianeta ferito dalla crisi climatica e ora anche dalla guerra.

I movimenti

«Ritengo utile – spiega – lavorare per un’assunzione della dimensione politica dei movimenti, abbandonata in questi anni, lasciando spazio da una parte alla sfiducia, dall’altra alla protesta. I movimenti, dopo il referendum sull’acqua bene comune del 2011, hanno

smesso di credere nella possibilità di trasformare la politica e si sono rifugiati in molte ottime buone pratiche che, però, non sono sufficienti, perché servono anche le buone politiche. I motivi per cui, nel corso del tempo, il movimento ecologista in Italia ha fallito, rispetto ad altri Paesi europei, sono tutti scritti dentro le classi dirigenti di quel partito. Oggi è forse più importante che questa cultura politica non si ghettizzi, ma entri nei grandi contenitori. Una rappresentanza dell’ecologismo sarà utile quando si capirà che non è un paradigma riguardante solo l’ambiente, ma tutta la società, dalla questione di genere a quelle sociali e delle comunità. Quella cultura politica non è ancora sufficientemente sviluppata e matura nel nostro Paese. Per incidere sulle decisioni, deve crescere dentro i grandi contenitori. Da uomo di sinistra immagino che contamini il programma del Pd, se guardo alle elezioni dell’anno prossimo. Spero invece che su un nuovo paradigma ecologista possa nascere una nuova offerta politica, se guardo ai prossimi dieci anni».

Non teme che, se diventasse il tema di una parte, si creerebbe una reazione politica che enfatizzi gli interessi minacciati dalla necessaria e sempre più urgente transizione ecologica?

«Vedo la reazione a destra e a sinistra, nelle resistenze di parti politiche e sindacali. È evidente come la forza di questa cultura metta in discussione delle rappresentanze. Proprio per questo motivo ritengo che oggi verificarne il consenso elettorale sia molto rischioso per i passi avanti da compiere e per le decisioni, anche piccole, da conquistare. Forse siamo tutti malati di Novecento nel pensare al nuovo partito, quando invece la chiave di lettura può essere la rappresentanza delle istituzioni civili in dialogo con la politica. Il lavoro in atto a Bergamo sulle comunità energetiche, tema radicale, non nasce dalla proposta di un partito, ma dalla disponibilità di un ente locale, la Provincia, e di una rete sociale economica. Se la politica è uno strumento anziché un obiettivo e se lasciamo da parte la dimensione del potere, il maggior protagonismo delle reti dell’autorappresentanza sulla scena politica può essere una strada post-novecentesca, forse anche più utile».

Nel libro è rievocata più volte la grande manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq, quando in tutto il mondo 110 milioni persone scesero in piazza. Perché, di fronte alla guerra in Ucraina, non si assiste a una mobilitazione pacifista?

«Stiamo ancora subendo le conseguenze della sconfitta del 2003, quando quel movimento, la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti, come fu definito dal New York Times, si schiantò contro la guerra in Iraq. La ferita di quella sconfitta è, ancora una volta, l’allontanamento tra società civile e politica, in cui poi si sono infilati tutti i populismi possibili

«I temi dell’ambiente e della pace incrociano la questione democratica»

immaginabili. L’assenza di una grande manifestazione è connessa con la sfiducia che l’opinione pubblica possa incidere sulla politica. E questo è un grande tema della qualità della nostra democrazia. Quindi i temi dell’ambiente e della pace incrociano la questione democratica perché, se non si crede più che l’azione possa cambiare il potere, è chiaro che questo sarà sempre di più in mano non alla volontà popolare, ma a quella di pochi interessi globali. È la mia lettura degli ultimi vent’anni. C’è quella grande ferita, ancora tutta da risanare».

Ad Astino ha scelto di confrontarsi con Francesca Forno, docente di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento, e don Massimo Maffioletti, vicario territoriale della Diocesi di Bergamo e parroco di Longuelo.

«Due persone incontrate sul mio cammino, che rappresentano due mondi, quello dell’economia solidale che si sta rilanciando dentro la dimensione più politica, e la Chiesa che, con Papa Francesco, offre ogni giorno una strigliata per svegliarci e guardare in faccia la realtà».

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