In una tranquilla periferia del Massachusetts intorno al 1970, J.B. Mooney, padre di famiglia disoccupato e ladro d'arte dilettante, decide di intraprendere la sua prima rapina. Dopo aver studiato il museo e reclutato i complici, ha un piano infallibile. O almeno così crede... The Mastermind è un film che punta tutto sulla forma: sui silenzi più che sulle parole, sui gesti più che sulle spiegazioni. Il suo fascino risiede proprio in quell’andamento sospeso, lento, volutamente enigmatico, sostenuto da una fotografia ruvida e da una messa in scena ovattata che sembrano celare più di quanto rivelino. O’Connor interpreta un protagonista sfuggente, quasi impermeabile, evocando per certi versi il personaggio che aveva già portato sullo schermo in La Chimera. Un parallelismo che funziona, ma che rivela anche il rischio di una ripetizione stilistica per un attore che avrebbe le capacità per esplorare registri diversi. L’ispirazione è evidente: gli antieroi disillusi della New Hollywood, soprattutto quelli del periodo più crepuscolare raccontato da registi come Jerry Schatzberg. La Reichardt li richiama senza imitarli apertamente, ma non riesce fino in fondo a catturarne l’urgenza emotiva, la vibrazione, il conflitto. L’unica sensazione che resta è quella della resa, della sconfitta come stato d’animo dominante. Un film che seduce con il suo mistero, ma che rischia di lasciare lo spettatore intrappolato nella sua stessa ombra.