I rigori mai

Così, dieci anni fa abbiamo vinto un mondiale ai rigori e dieci anni dopo ai rigori perdiamo un europeo: la differenza, si direbbe, è ancora a nostro favore. Parliamo di calcio, per chi vivesse su Urano, e la ragione per cui lo facciamo è che di tutto il resto, grondante sangue, non si può parlare, non qui. Diciamo che il resto di cui sopra è “imparlabile”.

Lo facciamo anche perché i calci di rigore, nella loro sbrigativa ingiustizia, sono un argomento interessante. Il calciatore che tira è messo peggio del portiere che para perché gli si spalanca l’alternativa più grave. Egli può essere eroe o imbecille; il portiere sarà invece o eroe o niente del tutto. Il calciatore ha però un vantaggio: è più facile segnare un rigore che pararlo. Questo perché la porta è grande e un calciatore degno di questo nome può decidere dove mandare il pallone. In teoria, naturalmente, perché mentre va a tirare si sente assediato da nemici terribili: uno sbuffo d’erba, i fischi del pubblico, il sorrisetto irridente di un avversario. Sbaglia, naturalmente. Il nemico vero è lui stesso e sta in agguato nell’emozione, nella responsabilità, nell’insicurezza.

In questa tempesta, al calciatore tocca di trovare un’oasi di stabilità: lo Zen e il tiro con l’arco. E’ andata così anche nella sfida tra Italia e Germania, con la sola differenza che un paio di tiratori azzurri invece che allo Zen e il tiro con l’arco si sono ispirati al Pagliaccio Maramao e le sue Mutande Pazze, ma a parte questo tutto si è svolto secondo il regolare protocollo di un confronto che conta su un solo fatto: prima o poi qualcuno sbaglierà. Questo principio, certo crudele, è talmente vero che merita di riscattare i rigori dalla loro reputazione di soluzione insoddisfacente, di giudizio iniquo. Esso riconosce infatti l’uomo per l’essere fallimentare che è. Alcuni trovano questa verità insopportabile e così, per tutta la vita, si astengono dal tirare calci di rigore.

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