Piovono gatti

Sono ben conscio che i miei tentativi di essere divertente, in questa rubrica, cadono spesso nel vuoto.

Cionondimeno, quello dell’umorismo è un argomento che mi interessa sempre e comunque. Per questa ragione, quando sul sito d’opinione bigthink.com è apparsa una galleria di articoli firmati da noti umoristi di lingua inglese (tra questi, John Cleese dei Monty Phyton, Ricky Gervais, Joe Randazzo di «The Onion» e Stephen Fry, che proprio umorista non è, ma - ancora meglio - è persona di grande spirito e intelligenza) mi ci sono buttato, come si dice, a pesce.

La lettura ha proceduto agevolmente fino a quando una convinzione corrosiva si è fatta strada nella mia testa: quanto andavo leggendo poteva essere considerato brillante, a tratti perfino geniale, ma certamente non divertente. In altre parole, l’umorista, invitato o addirittura sfidato ad analizzare il suo stesso talento, finiva per prendersi sul serio, troppo sul serio, e, come l’acrobata che tagli il filo teso sotto i suoi piedi, precipitava in un sussiego tanto più sgradevole in quanto applicato al tema dello humour.

Questa constatazione mi ha allontanato dagli articoli ma non loro soggetto. Il fatto che grandi menti dell’umorismo non riuscissero a parlare dell’umorismo stesso senza perderlo per strada, non poteva che indurmi a riflettere sulla natura stessa dello spirito. Della vis comica, se volete. La quale si dimostrava materia talmente delicata da non resistere all’analisi, alla misurazione: come una particella che, rifugiandosi nella dualità, neghi al ricercatore la sua vera natura.

Allora ho ripescato dalla libreria un brano di Wodehouse nel quale, senza spiegarlo, si dimostra lo humour. Accade che per qualche misteriosa ragione un gatto cada da un davanzale e finisca sulla schiena di un uomo. «“Al diavolo!” gridò il vecchio gentiluomo. Una testa spuntò dalla finestra. “Che cosa succede, Mortimer?” “Piovono gatti.” “Nonsense! È così una bella serata” disse la testa, e sparì».

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