Schiavi in bermuda

Oggi, sabato, molti godranno del beneficio di non lavorare, almeno me lo auguro. Quale giorno migliore, dunque, per parlare di lavoro?

Non fate quella faccia: intendo soltanto dire che, non essendo costretti dall’obbligo delle otto (o più) ore, possiamo affrontare l’argomento con serenità e con occhio limpido e obiettivo. A dire il vero, con molti di coloro che hanno un impiego nel settore ferroviario di lavoro si sarebbe potuto parlare anche ieri. Essi, infatti, ieri hanno scioperato e, scioperando, hanno goduto di quel distacco dal sudore necessario, come dicevamo, ad affrontare la questione con filosofia. Perché hanno scioperato? Ottima domanda, oltre che legittima. Cercando qua e là ho scoperto che lo sciopero è stato indetto contro «la politica economica del governo Renzi e dell’Unione europea, contro il Jobs Act e altre misure per il mercato del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18, nonché contro il blocco dei contratti pubblici e privati, l’aziendalizzazione della contrattazione e l’individualizzazione del rapporto di lavoro, contro le privatizzazioni, le grandi opere dannose e la distruzione del territorio».

A parte l’abuso del suffisso «-zione», la frase di cui sopra si distingue per evidente pretestuosità, tanto che viene da chiedersi come mai, sullo slancio, non si sia scioperato anche contro la fame nel mondo, l’eliminazione della Juventus dalla Champions League e l’eccesso di albumina nel sangue.

Lo sciopero, tra l’altro, ci ha raggiunto in una stagione dell’attualità in cui già notavamo l’affiorare, in altri ambiti, di rapporti un tantino laschi con i doveri d’ufficio: dipendenti pubblici che timbrano e vanno a bere il caffè, che timbrano in bermuda - ovvero pronti per la spiaggia - e che rivolgono gestacci alla macchinetta timbratrice. Peccato, perché non è difficile capire che, a furia di trattare così i diritti e doveri, finiremo per avere soltanto i secondi. Saremo schiavi. In bermuda, ma schiavi.

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