Tu vuo’ fa’ il bamboccione

Nell’ottobre del 2007 Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia nel governo Prodi, coniava il termine “bamboccione” a denuncia dei giovani italiani che tardavano a staccarsi dal nido famigliare. Un’uscita che fornì al Paese materiale polemico a volontà. Pochi giorni dopo, in forma come un maratoneta dopato, Padoa-Schioppa superava se stesso dicendosi convinto che “le tasse sono una cosa bellissima”.

A tutta prima parve che questa seconda sparata cancellasse la prima, ma così non è stato. Per quando paradossale e provocatorio possa sembrare ancora oggi il commento sulle tasse, quello sui bamboccioni ha fatto molta più strada. La misura del successo di quell’osservazione sta nell’impatto che ha avuto sulla lingua: “bamboccione” è oggi un termine legato a un fenomeno preciso, individua una altrettanto precisa figura sociale e racchiude in sé un particolare rivelatorio del carattere italiano.

Quasi dieci anni dopo la dichiarazione di Padoa-Schioppa occorre però rifare i conti e non perché i giovani italiani abbiano smentito il defunto ministro, quanto perché cominciano a dargli ragione anche quelli stranieri. Un sondaggio portato a termine negli Stati Uniti ha rivelato che i ragazzi americani si staccano sempre più tardi dalla famiglia (mentre un tempo, ci raccontavano, i genitori li sbattevano fuori praticamente dopo le elementari) e che, in larga maggioranza, hanno del futuro una visione molto meno ottimistica delle generazioni più anziane.

Il bamboccionismo, se vogliamo metterla così, dilaga oltreoceano. Potremmo dire che prima degli americani i ragazzi italiani hanno intuito l’incertezza del futuro, la fragilità dei loro progetti. E’ addirittura possibile che ci si avvii a un mondo di famiglie sempre più “allargate”, nel senso che tutti, dai nonni ai nipotini, pretenderanno di rimanere per sempre al riparo del tetto natio. “Vorrei tanto tornare all’infanzia” hanno confessato molti giovanotti americani. Forse li consolerà sapere che, solo dicendolo, un po’ ci sono riusciti.

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