«La protesi dopo un incidente al lavoro
E ora sono io a occuparmi di sicurezza»

Aveva 17 anni e lavorava da sei mesi quando un tornio gli ha tranciato il braccio sinistro. Non un taglio netto in modo che mano avrebbero potuto riattaccargliela. Il macchinario, invece, l'ha addentato a metà avambraccio, stritolandoglielo. Non erano rimasti che brandelli, non c'era alternativa all'amputazione completa. Sarebbe bastato un dispositivo da qualche centinaio di euro montato sul macchinario - un «fungo di emergenza», si chiama in gergo -, per evitare a Nicola Martini di Zandobbio, che oggi ha 29 anni, settimane di ospedale, mesi di fisioterapia, carte a non finire, un'infinita causa legale, una placca di metallo nell'omero e questa protesi al posto del braccio stritolato 12 anni fa nel freddo del capannone dove il ragazzino lavorava.

Nicola si è ritrovato senza un braccio, senza un lavoro e davanti un futuro da reinventare. Dalla sua aveva un gran bel carattere. Non si è arreso, si è messo in contatto con l'Anmil, è tornato a studiare e oggi è lui, nella nuova ditta in cui ha trovato lavoro, a occuparsi di sicurezza. Certo, la legge con le sue sofisticherie non gli consente di essere nominato Responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'azienda, perché ha un diploma di tre anni e non basta, ce ne vuole uno di cinque. Fa niente se poi chi più di lui può parlare di sicurezza. E se Luigi Feliciani, presidente provinciale dell'Amnil, lo chiama spesso per incontrare imprenditori e lavoratori a cui spiegare che la prevenzione dei rischi andrebbe insegnata sui banchi di scuola, perché la sicurezza non è la ciliegina sulla torta. È, invece, un investimento, prima di tutto perché la vita dei lavoratori non ha prezzo, poi perché se il luogo in cui si passano tante ore della giornata non è confortevole - almeno non una trappola -, la gente lavora meglio e produce di più.

Leggi l'inchiesta su L'Eco di Bergamo dell'11 ottobre

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