8 marzo: Cgil, 5 storie di donne
raccontate direttamente dalle donne

L'artista, la mamma a tempo pieno, l'insegnante, la pensionata e quella
in cerca di lavoro: in occasione dell'8 marzo, della giornata internazionale della donna, la Cgil di Bergamo ha raccolto cinque storie, raccontate in prima persona, direttamente dalle donne.

L'artista, la mamma a tempo pieno, l'insegnante, la pensionata e quella in cerca di lavoro: in occasione dell'8 marzo, della giornata internazionale della donna, la Cgil di Bergamo ha raccolto cinque storie, raccontate in prima persona, direttamente dalle donne.

Ciò che faccio per vivere (e ciò che faccio per sopravvivere)
Clara, artista, 37 anni

«Se mi chiedono "Che lavoro fai?" la risposta è "Sono un'artista", "Cioè cosa fai?", "Mi occupo di arti visive", "Quindi dipingi?", "No, le mie opere sono installazioni, performance, work in progress". "Sì, ma qual è il lavoro che fai per vivere?". Qui sta il punto, ciò che faccio per vivere è l'artista, ciò che faccio per sopravvivere è anche altro».

«E così sono anche un'educatrice museale in un museo d'arte contemporanea quando c'è lavoro, oppure sono una trampoliera, un'attrice sui trampoli, e tante altre piccole cose che mi invento strada facendo. E allora tutti mi dicono "Bello però!" e il sottotesto che mi arriva è "Certo che questa se la spassa alla grande!"».

«In realtà non è tutto lucente come appare, nel campo delle arti mi devo anche occupare della produzione delle opere, intendo il loro aspetto economico, della promozione del mio lavoro (che mi porterebbe a dover viaggiare, ma anche qui servono soldi), della gestione dei contatti e così via. Per questo la cosa più importante sarebbe avere molto tempo a disposizione».

«E qui il meccanismo si inceppa, vista la necessità di dedicare parte o molto tempo alle altre attività che in fondo mi danno la possibilità di mantenermi e di finanziare la mia ricerca. Certo, se dopo molti anni vissuti in questa dimensione di equilibrio precario non mi sono arresa è perché sono convinta che la scelta di operare in questo campo sia l'unica possibile per me. E di fondo, anche se non sempre ho una visione positiva sul domani, sono una persona che ama mettersi in gioco e giocare».

Anni di lavoro buttati al vento
Manuela, in cerca di lavoro, 35 anni

«Abito in un piccolo paese a trentacinque chilometri da Bergamo e negli ultimi sette anni ho lavorato per un'azienda leader nel settore dell'abbigliamento intimo. Venivo da esperienze dove, dopo aver lavorato tanto (ho cominciato a quattordici anni), mi ero ritrovata a non avere alcuna soddisfazione né economica, né lavorativa. Ho lavorato vent'anni, ma in tutto questo periodo sono riuscita ad avere solo due anni di versamenti contributivi».

«L'azienda di intimo mi aveva assunta con un contratto detto "Associazione in Partecipazione". Mi avevano detto che avrei potuto dimostrare tutte le mie capacità, organizzative e vendita. Ambiente giovane, promesse economiche allettanti: da subito ho capito che bisognava vendere tanto per far crescere l'azienda, senza alcun appoggio dei responsabili».

«Le commesse cambiavano appena si rendevano conto degli orari (almeno 40 ore alla settimana) e del lavoro che non era solo quello di vendere, ma che riguardava anche l'ordine della merce, l'allestimento di negozio e vetrine, la pulizia, la gestione dei versamenti. In tutto questo andirivieni di persone (circa venti in sette anni) non esiste alcuna regola scritta dettata dai vertici: nessuno è responsabile del funzionamento del sistema».

«Alla fine di ogni anno, col rendiconto finale, l'azienda addebita gli ammanchi di merce al personale che in quell'anno ha prestato servizio; pertanto, parte degli utili che avremmo dovuto riscuotere veniva assorbito da queste operazioni. Senza contare che gli ammanchi di cassa giornalieri devono essere integrati».

«Ho chiesto chiarimenti, ma - a seguito delle mie innumerevoli richieste di spiegazioni - mi hanno lasciato a casa dopo sette anni, dandomi tre giorni di tempo per lasciare il posto di lavoro: il "famoso contratto" di "Associazione in Partecipazione" lo prevedeva. Niente preavviso, niente liquidazione, niente versamenti Inps. Sette anni lavorativi da aggiungere a quelli precedenti: tutti buttati al vento».

Più vista né sentita la proprietaria cinese
Marina, mamma a tempo pieno, 37 anni, albanese

«Lavorerei, ho voglia di lavorare, il mio problema è che non ho nessuno che tenga la mia bambina. L'asilo nido costa troppo, non riesco a guadagnare abbastanza. D'altra parte da molto tempo sono iscritta all'ufficio di collocamento e non sono mai stata chiamata. Certo, la soluzione per me sarebbe un asilo nido che costasse meno, sarei più libera di cercare un lavoro».

«Invece, sono arrivata al punto di dover chiedere il congelamento del mutuo della nostra casa perché non ce la facciamo più con uno stipendio solo, quello del mio compagno che lavora nell'edilizia. I guai al lavoro sono cominciati quando il proprietario della stireria dove ero assunta da cinque anni ha venduto l'attività a una donna cinese: lei ha smesso di pagare le bollette, lavoravamo in condizioni pessime, mettevamo persino i cartoni sotto piedi per non sentire il freddo, visto che il riscaldamento non funzionava più».

«Fino a quando, da un giorno all'altro, siamo stati lasciati a casa. Abbiamo ottenuto il fallimento della ditta, così abbiamo almeno avuto otto mesi di disoccupazione. Proprio mentre la stireria chiudeva sono rimasta incinta: così ho perso la possibilità di godere del periodo intero di maternità, ho avuto solo cinque mesi. Non siamo più riusciti a trovare la proprietaria cinese, nemmeno il sindacato ci è riuscito, non l'abbiamo più vista né sentita, è scomparsa».

Il segno di quei tre giorni
Paola, insegnante, 40 anni

«Rimanere incinta a 40 anni compiuti: non succede per caso, non è più un'eccezione. Il mio corpo è giovane non solo perché me lo dicono gli altri, sono le risposte che lui mi dà ogni giorno a confermarlo. Ho un lavoro impegnativo ma faccio sport regolarmente e riesco a recuperare senza sforzo le energie dopo serate tirate troppo in lungo».

«E allora, un figlio va bene, chiudendo in un angolo remoto della mente le preoccupazioni per la realtà del mondo in cui si troverà a vivere, così incredibilmente diverso da quello che ogni genitore vorrebbe, che ogni donna e ogni uomo vorrebbero».

«Ma i controlli medici, quelli non si discutono: sono stati il mio slogan ripetuto ogni volta che un'amica affrontava una gravidanza; ne ho parlato da tempo anche con la ginecologa che mi segue e quindi, quando il test è positivo mi metto subito in contatto con lei, gentile e rassicurante. Del resto, l'ho scelta anche per la sua esperienza specifica sulle patologie».

«Purtroppo tutto questo si rivela improvvisamente inutile, quasi una beffa quando il risultato delle analisi ci dà la peggiore delle risposte possibili: serve un aborto terapeutico, al più presto, perché siamo già quasi al limite del tempo utile. Nessun dubbio, è la cosa giusta da fare, anche se incredibilmente dolorosa da affrontare, ed è duro scoprire che una parte della sofferenza poteva esserci evitata. Aiuta sapere che difficilmente il feto sarebbe arrivato al momento del parto?».

«Forse, ma senz'altro non immaginavo il segno che mi hanno lasciato quei tre giorni in un letto di un reparto pieno di fotografie di neonati ad aspettare che la pillola facesse effetto, il terribile dolore fisico, la freddezza e il commento caustico dell'infermiera obiettrice alla richiesta di altri assorbenti… e appena fuori dalla mia camera, il centro per la procreazione assistita».

Per nulla al mondo avrei rinunciato alle mie lotte quotidiane
Caterina, ex operaia e rappresentante sindacale, 80 anni

«Si chiamava Romano Cocchi il giovane attivista che, negli anni Venti alle industrie tessili "Bellora" e "Dell'acqua", insegnava agli operai a lottare per una maggiore dignità personale, per la loro emancipazione sociale e politica. Mia madre era una di quelle operaie e imparò da lui a non avere paura, a non avere paura di reagire allo sfruttamento padronale e a non temere l'opinione comune che del padrone la voleva succube e sottomessa».

«Romano Cocchi scomparve all'improvviso, si disse che i fascisti lo avessero ucciso e deportato, ma il suo insegnamento rimase in quelle valli dove era tanto difficile reagire alle ingiustizie. E mia madre insegnò a me il valore delle lotte operaie che aveva appreso da lui. Imparai a non temere le ribellioni e la sommossa, gli scioperi e l'arroganza dei padroni. Appresi il valore delle azioni sindacali e dell'unità e della coesione dei lavoratori».

«Quello che recepivo aveva il prezioso valore delle idee immortali e mi confortava la certezza di essere dalla parte della giustizia. Più tardi mi sposai con il presidente della sezione leffese del Pci. Fu naturale per me continuare vicino a lui quella lotta di classe che avevo appreso accanto a mia madre. L'impegno politico e sindacale nella mia nuova famiglia divenne una consuetudine».

«Negli anni Settanta, dove lavoravo, entrai a far parte del consiglio di fabbrica, le lotte per la difesa del posto di lavoro e per un salario dignitoso mi rendevano fiera. Vedere anche solo un operaio in più seguirci nelle nostre azioni di lotta era l'esperienza più gratificante che mi si potesse presentare e la più grande delusione di quel periodo era vedere ritirarsi, nei momenti cruciali e coi pretesti più ridicoli, chi ci aveva assicurato il proprio appoggio in assemblea».

«Madre di famiglia e lavoratrice, molte volte la vita non era affatto semplice, ma per nulla al mondo avrei rinunciato alle mie lotte quotidiane per l'uguaglianza e la solidarietà tra noi forze del mondo del lavoro».

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