«Vita da precaria al call center
I diritti e la tutela non esistono»

«Quando dico che lavoro in un call center della Bergamasca, subito i miei interlocutori si stupiscono del fatto che anche da noi siano presenti. Nell'immaginario collettivo i call center si trovano principalmente al sud e ci lavorano "sfigati" che chiamano a casa a tutte le ore».

«Quando dico che lavoro in un call center della Bergamasca, subito i miei interlocutori si stupiscono del fatto che anche da noi siano presenti. Nell'immaginario collettivo i call center si trovano principalmente al sud e ci lavorano "sfigati" che chiamano a casa a tutte le ore per vendere chissà quali prodotti. Ma non è così: ci sono anche da noi e soprattutto si tratta di un lavoro di tutto rispetto ed impegnativo, in cui oltre alla vendita, ci si occupa di erogazione di servizi, come l'assistenza ai clienti».

Lucia (nome di fantasia per questioni di privacy) ha 35 anni e da tre lavora in un call center della Bergamasca. «Prima ero contabile in un'azienda privata - racconta - che ha chiuso a causa della crisi. Quando mi sono presentata al call center mi hanno parlato di trenta ore di lavoro a settimana garantite. Ma la situazione è diversa; per questo, anche a nome di molti altri colleghi, ho deciso di raccontare la nostra realtà lavorativa».

L'età media è di 21 anni e la maggior parte degli operatori hanno un contratto a chiamata. «Ci sono persone che ci lavorano da cinque o dieci anni, eppure hanno ancora questo tipo di contratto. Qualcuno ha famiglia e dei figli: sono lavoratori subordinati a tutti gli effetti, devono essere puntuali, avvisare se sono malati (ma in questo caso la giornata non è pagata, ndr), ma non hanno diritti né tutele. Sono lavori che implicano un forte dispendio di energie e fattori di stress da non sottovalutare; non è facile mantenere sempre la calma ed avere la parola giusta quando dall'altro capo della cornetta manca il rispetto. Il nostro è una forma di precariato estremo» denuncia Lucia.

Solitamente il primo anno e mezzo il pagamento avviene con ritenuta d'acconto, poi si passa a un contratto di centralinista, anche se il lavoro svolto da Lucia e colleghi non è certo quello di smistare le chiamate. Il guadagno mensile, per venti ore a settimana, è di circa 600 euro; nel periodo di massimo lavoro si arriva a svolgere anche trenta o trentacinque ore a settimana. Ma il problema sta proprio nel fatto che, a dispetto del colloquio iniziale, le ore settimanali spesso non sono garantite e i turni degli operatori sono stabiliti a insindacabile giudizio di un supervisore.

«Non c'è equità nella distribuzione dei turni - prosegue Lucia - e quando si chiedono spiegazioni, non ci vengono date. Non ci sono pari opportunità, sembra quasi una forma di caporalato, dove il supervisore, che spesso non ha neppure visto i nostri curricula, ci giudica a seconda delle sue simpatie. Un giorno alcune colleghe e io abbiamo fatto un esperimento; garantendo la stessa disponibilità oraria, abbiamo ottenuto 15, 20 e 25 ore a settimana ciascuna. Credo che, se c'è meno lavoro, al massimo si dovrebbe avere un paio d'ore di differenza l'una dall'altra. Da un lavoro del genere non ci si può aspettare nulla: si può dare il massimo, ma si ottiene il minimo».

Una situazione di disagio, soprattutto per chi vive solo di questo reddito: «Il contratto a chiamata va bene per gli universitari - prosegue Lucia - o per chi fa questo lavoro per arrotondare. Ma chi è lì da una vita dovrebbe essere assunto. Il problema è che non si fa distinguo tra chi è di passaggio e chi invece è lì tutti i giorni e porta avanti il servizio. Non si premia il merito».

A peggiorare la situazione negli ultimi mesi sono subentrati nuovi operatori, circa una sessantina, formati su determinati servizi. Ma il lavoro è diminuito e così gli operatori si sono ritrovati a fare anche solo uno o due giorni a settimana, per fare sì che quasi tutti possano lavorare. «Invece di formare altre persone - dice amareggiata Lucia -, avrebbero potuto gestire la situazione in modo diverso. Spesso poi cercano nuove leve per altri servizi senza chiedere agli operatori già presenti se vogliano specializzarsi anche su altro».

Neppure i sindacati, presenti nell'azienda e a cui gli operatori si sono rivolti, possono cambiare le carte in tavola: «Ci hanno detto - riferisce Lucia - di formare un gruppetto di trenta persone e solo a quel punto si potrebbe aprire una trattativa. Ma come possono chiedere di esporci, quando sanno benissimo che ci si ritorcerebbe tutto contro, con i supervisori che ci darebbero turni di meno ore? Purtroppo anche tra noi operatori manca l'unità, questa situazione ci ha resi fragili, molte persone vogliono solo essere invisibili, venire al lavoro, fare le loro ore e basta, non hanno più le energie per combattere. Non possiamo certo dire che viviamo del nostro lavoro. Noi sbarchiamo il lunario».

Giada Frana

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