Esattamente 80 anni fa, il 1° dicembre 1923, in valle di Scalve, cedeva di schianto la diga del Gleno, costruita a 1500 metri di altitudine, per imbrigliare le acque del torrente Povo.
Sei milioni di metri cubi d’acqua si riversarono sui poveri paesi della valle, seminando morte e distruzione. Da uno squarcio di circa 80 metri, apertosi nella diga, la massa d’acqua fuoriuscì prorompente in soli 15 minuti. Sotto fango e detriti si contarono circa 500 vittime.
Come accertò il tribunale dopo 4 anni di dibattimento, le cause del disastro furono attribuite a «negligenza e imperizia, uso di materiali inadatti o male manipolati per ragioni di economia, variazioni apportate al progetto senza ottenere le previe autorizzazioni, messa in esercizio delle opere di invaso senza aver prima ottenuto il collaudo del lavoro».
Furono ritenuti responsabili il costruttore, un ex filandiere divenuto impresario, e un ingegnere. Il tribunale di Bergamo li condannò a pene miti: non risarcirono le parti lese, ed anzi vennero poi assolti in appello. Per l’immane disastro della diga del Gleno, insomma, non pagò nessuno, solo la povera gente della Valle di Scalve. Il loro fu un prezzo alto, in vite umane, distruzione e misera. Una storia tutta italiana.
(01/12/2003)
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