All’Equatore la parola d’ordine è «Hakuna matata»

LUSAKA (Zambia) - Liberi, liberi. Sembrerà strano, ma ci sentiamo totalmente liberi e ci stiamo godendo al 100% il giro del mondo soltanto da una decina di giorni, quando ormai sono trascorsi due mesi dalla partenza. Il problema è che abbiamo sempre dovuto correre. In Tunisia perché ci attendeva la guida in Libia, in Libia perché il programma era obbligatoriamente rigido, in Egitto perché non potevamo assolutamente perdere il traghetto per il Sudan a cadenza settimanale, in Sudan perché siamo stati bloccati diversi giorni da intoppi vari e perché dovevamo recuperare un amico che sarebbe atterrato ad Addis Abeba, in Etiopia e Kenya perché volevamo dedicare molto tempo ai gioielli naturalistici della Tanzania prima della partenza del nostro amico.

Dopo 26 giorni intensi in Tanzania, abbiamo invece più di un mese di assoluta libertà da spendere tra Zambia, Zimbabwe, Botswana e Namibia prima di entrare in Sudafrica e pensare alla spedizione in container via mare del fuoristrada (!) e alla trasferta sudamericana.

Non è che la strada sia in discesa: in Zimbabwe dovremo risolvere la grana del gasolio che è introvabile. Comunque sulla linea dell’Equatore si dice, in swahili, «hakuna matata», ovvero «nessun problema, tutto si risolve».


Con il nostro racconto eravamo però rimasti in Sudan, al tamponamento notturno dell’asino, che forse ci avrà denunciato per omissione di soccorso, se è sopravvissuto, ma non potevamo perdere tempo: la constatazione amichevole sarebbe stata laboriosa.... Dopo 600 km di piste nel deserto e dopo aver rimesso le ruote sull’asfalto, speravamo che da Gedaref la strada verso il confine con l’Etiopia sarebbe stata in condizioni accettabili essendo un collegamento internazionale.

Invece si è rivelata un incubo per il fango. E meno male che non pioveva: sarebbe diventata assolutamente impraticabile. Per attraversare Gedaref e rintracciare la strada per Gallabat e l’Etiopia abbiamo dovuto superare una collinetta terribile. Siamo scesi dal fuoristrada per domandare informazioni, abbiamo percorso una decina di metri e sulla suola delle nostre scarpe si è attaccato uno strato di fango così consistente che non eravamo quasi più in grado di camminare. Immaginate di guidare.

Sulla strada principale non è cambiato molto: anche viaggiando a 10 km/h si perdeva talvolta il controllo del fuoristrada, si doveva continuamente sterzare e controsterzare per tentare di andare diritto ed evitare le buche, quasi voragini. Abbiamo dato un passaggio a una giovane mamma musulmana, Fatma, che aveva con sé Mohammed, il figlioletto di un anno e mezzo. Mohammed ha giocato con Diddl, il nostro pupazzo portafortuna, e non ha pianto per i continui e violenti sobbalzi del fuoristrada, anche perché la mamma lo ha allattato.

Una parentesi sulle donne sudanesi: sono sì musulmane, ma non integraliste: amano il dialogo, sorridono, non disdegnano le fotografie e al nero preferiscono colori sgargianti.


A Gallabat abbiamo individuato l’ufficio della dogana: squallido e lercio, un paradiso per le mosche. Eravamo i soli a dover superare il confine, ma abbiamo atteso un quarto d’ora l’arrivo dei funzionari. Il doganiere più giovane indugiava sulle carte, quello navigato ha invece sbrigato subito la pratica del nostro carnet de passage senza degnare di uno sguardo il Land Cruiser. In un ufficio dignitoso, un centinaio di metri più avanti, ci hanno timbrato il passaporto in un battibaleno.

Siamo entrati così a Metema, in Etiopia, passando nel fango su un ponticello e scansando un asino (sì, è la nostra bestia nera).

Abbiamo immortalato il confine (qui a lato) e un sudanese, in territorio etiope, ci ha rimproverato dicendo che non potevamo fotografare il suo Paese. Ma va....

Procedure veloci, quasi informali in Etiopia, se non fosse stato per la caccia al tesoro. L’ufficio immigrazione è addirittura in una capanna lontano dalla strada, senza il soccorso di un ragazzino saremmo ancora lì a cercarlo, e per i documenti della macchina ci hanno indirizzato in un minuscolo prefabbricato, ma da lì ci hanno dirottato a Shenedi, la cittadina successiva distante 30 km.

Atmosfera cordiale in un edificio fatiscente, nessun controllo al fuoristrada e finalmente nessun esborso per l’importazione temporanea del veicolo. Ci hanno cambiato i dollari perché era domenica, giorno festivo in Etiopia, Paese a prevalenza cristiana, e le banche non erano aperte. Un giovane che bazzicava lì ci ha ordinato una birra, marca Dashen. Quanti birr (la moneta locale)? Gratis, ce l’ha offerta. Rifornimento (un litro di gasolio circa 40 centesimi di euro) e partenza per Addis Abeba con un migliaio di chilometri da percorrere in un giorno. Strada sterrata, ma in terra battuta rossa, ok. Per noi, reduci dall’incontro molto ravvicinato con un asino, è stato però un dramma constatare l’usanza etiope di camminare liberamente sulla strada (anche di notte) e consentire a mucche, capre e asini di vagare dappertutto. È vero che i veicoli sono rari e che non esistono i marciapiedi, ma il viaggio si è trasformato in una gimkana tra esseri umani e animali.

Purtroppo l’Etiopia è stata sacrificata in modo drastico, abbiamo dovuto rinunciare a visitare il Nord con il suo grande patrimonio storico e archeologico, le sue chiese e i suoi castelli (ma un giorno ci ritorneremo), per puntare diritto sulla capitale. Paesaggio sorprendente. Pensavamo a un’Etiopia terra desolata e deserta ed è stato invece un trionfo di verde. Ci ha ricordato la Svizzera per le sue vallate, ma pure le nostre montagne bergamasche e le colline toscane, non considerando naturalmente le capanne di legno, fango e paglia. L’Etiopia è uno dei dieci Paesi più poveri al mondo, dicono le statistiche, ma ci sembra incredibile. Acqua, agricoltura, allevamento, legno: le materie prime per vivere dignitosamente ci sono. Probabilmente è strangolata dalla carenza di tecnologia e di infrastrutture, da una politica inadeguata e naturalmente da guerre e carestie varie.


Abbiamo guidato ininterrottamente tutto il giorno e a Gondar, la Camelot d’Africa, la strada è diventata asfaltata A Bahir Dar, ormai era buio, avremmo voluto continuare il viaggio, ma in rapida successione un giovane benzinaio (Tena, a cui abbiamo dato la nostra nostro e-mail, ci ha scritto dieci giorni fa), un poliziotto e Abrham, uno studente, ci hanno caldamente invitato a non guidare di notte in quell’area, teatro di diverse aggressioni e rapine. Abrham, in bicicletta, ci ha accompagnato fino all’imbocco della strada per Addis Abeba, ma ci ha convinto a desistere con un’alternativa: bighellonare in città fino alle quattro di notte e rimettersi al volante quasi all’alba per essere, verso le dieci del mattino, all’aeroporto di Addis Abeba.


Così abbiamo cenato in una terrazzina di un ristorante che dà sul lago Tana. Pesce discreto, Abrham voleva solo una birra, ma abbiamo insistito e allora ha ordinato l’injera, una sorta di focaccia sottile (è il pane etiope), con uno stufato di verdure. Prima di mangiare ha pregato. Abrham, che ha vent’anni, ci ha raccontato la sua storia. Strappalacrime. Può darsi che abbia esagerato per strapparci qualche dollaro (ne ha avuti sette), ma ci è sembrato sincero. È orfano perché il padre non l’ha nemmeno conosciuto e la madre è morta durante una gravissima epidemia di malaria. Il fratello è stato invece ucciso nella recente guerra dei poverissimi con l’Eritrea (attualmente i due Paesi sono separati da un cuscinetto di sicurezza gestito all’Onu).

Lui è atteso dall’ultimo anno di scuola superiore, anticamera dell’università. Sogna di diventare dottore per aiutare il suo popolo. Per vivere fa il lustrascarpe, se lavora bene guadagna circa 50 birr al giorno, più o meno 5 euro. Per l’affitto di una stanzetta paga l’equivalente di 20 euro al mese, ma per un anno di scuola deve sborsarne 800 (parliamo sempre in euro). Non ha la fidanzata perché sarebbe una distrazione, il suo principale obiettivo è studiare per allontanare la povertà. L’unico divertimento è il calcio, gioca come centravanti in una squadretta locale. Abrham odia la classe politica etiope, secondo lui è la causa del disastro del suo Paese. Abbiamo tirato le quattro in un minuscolo pub dove si beveva molta birra e si ballava al ritmo di rap americano. Abrham ci ha nuovamente indicato la direzione per Addis Abeba. Una strada, alternativa alla principale per un tratto consistente, che ci avrebbe consentito di accorciare la tappa di un centinaio di chilometri.

«Vai avanti per circa cinque minuti, sulla destra vedrai una strada larga, gira e arriverai diritto ad Addis Abeba. È sterrata per i primi chilometri, poi diventa d’asfalto». Le parole in inglese di Abrham ci risuonavano nelle orecchie. Era notte, non sapevamo se avevamo deviato al punto giusto e non c’erano cartelli stradali a cancellare i nostri dubbi. Attendevamo con ansia l’alba per fugare il timore di un’aggressione e l’asfalto per accelerare l’andatura. Sullo sterrato abbiamo rischiato l’osso del collo guidando a 80, 90 km/h.


Ebbene, l’alba è arrivata e con l’alba la nebbia tra le colline a comporre un’atmosfera surreale, ma di asfalto nemmeno a parlarne. È aumentato il dubbio di aver commesso un errore. Ci fermavamo per informarci, ma la gente si ritraeva, quasi fossimo noi a volerli aggredire. Finalmente un cartello e l’indicazione di un paesino, Dima. Sospiro di sollievo, eravamo sulla strada giusta, anche se continuava ad essere sterrata. Un incrocio, abbiamo domandato la direzione a un bambino e lui stava per scappare. Lo abbiamo «riacciuffato», tranquillizzato e accompagnato a scuola, distante un quarto d’ora di auto. Gli etiopi sono incredibili: camminano impassibili, e magari stracarichi, per chilometri e chilometri, per andare a scuola, ai mercati dei villaggi o ai pascoli. Una continua fila indiana di persone, animali e speranze. Ci sono bambine e donne che trasportano sulle spalle legna da ardere, che pesa più chili di loro, per l’equivalente di mezzo euro al giorno.


Ci siamo ricollegati all’arteria principale per Addis Abeba: asfalto, ma è durato poco. Di nuovo sterrato e salita, salita, con una montagna di tornanti. In cima ci siamo rincuorati. È ricomparso di nuovo l’asfalto, merito del governo giapponese che ha finanziato la costruzione di una bellissima strada, e la capitale distava soltanto un centinaio di chilometri. Ci è venuto sonno, ma non abbiamo mollato e alle 11,30, con un ritardo ragionevole, siamo piombati all’aeroporto. Non eravamo più soli, un amico - pure lui si chiama Marco - sarebbe venuto con noi per quasi un mese fino a Dar Es Salaam, in Tanzania.

Addis Abeba, nel cuore dell’altopiano a 2.350 metri d’altezza, è come un immenso paesotto di provincia con cinque milioni di abitanti: caotico, polveroso, rumoroso, con baraccopoli non lontane da hotel a cinque stelle, capre che brucano l’erba cittadina e una povertà infinita. Una povertà sconcertante. Ci si ferma al semaforo ed è una processione di vecchi, storpi, donne e bambini che implorano, reclamano l’elemosina. La si dà a uno e si è assaliti. Sul bordo di una strada abbiamo notato un barbone handicappato che dormiva su una carrozzella semirotta, un’immagine angosciante. Poveri che gremiscono le chiese per un conforto spirituale e materiale. Stanchi morti, ci siamo concessi tre notti nel lusso dell’hotel Hilton di Addis Abeba. La riflessione è che forse, dopo aver visto tutta quella povertà, non si è rivelata una scelta corretta.


Tre giorni in cui la nostra principale preoccupazione è stata far riparare il fuoristrada. Quasi 300 euro il preventivo della Moenco, l’officina Toyota più affidabile, per la sostituzione del faro e della freccia destri. Il primo giorno non c’era il faro, il secondo eravamo in ritardo e avevano già un superlavoro e il terzo siamo rimasti lì cinque ore. L’incidente con l’asino aveva deformato lievemente lo scheletro del fuoristrada, cosicché il nugolo di meccanici (erano in sei) ha dovuto penare per inserire nelle loro sedi il faro e la freccia (ambedue in materiale plastico, non in vetro). Abbiamo scoperto inoltre che la ruota anteriore destra aveva un «gioco» preoccupante. Il capo meccanico ci ha spiegato in un italiano discreto che la causa era una boccola malridotta del braccio dello sterzo, che il pezzo di ricambio era costoso e indisponibile perché il nostro Land Cruiser KZJ 95 del 1998 era un modello nuovo (!) per l’Etiopia, ma che avrebbe tentato una riparazione di fortuna. È stato un mago.


Aggiustata e lavata, la Toyota è ridiventata quasi nuova. Temevano di pagare cara la manodopera: invece ci è costata appena 160 birr, poco più di 15 euro. Totale equivalente a 310 euro. Il ricordo più bello di Addis Abeba? Indubbiamente la nuotata notturna nella piscina riscaldata e all’aperto dell’Hilton (di sera nella capitale ci sono 10-15 gradi). Null’altro da segnalare se non la presenza di numerosi stranieri, tra cui italiani, attivi nelle organizzazioni umanitarie e la miriade di fuoristrada delle Nazioni Unite e dell’Unicef.

Nemmeno le due tappe nell’Etiopia meridionale, verso il Keyna, si sono rivelate entusiasmanti: volevamo visitare la Bassa Valle dell’Omo, un angolo di natura selvaggia dove sono concentrate diverse popolazioni indigene dalle tradizioni immutate da secoli, ma vi abbiamo rinunciato sia per ragioni di tempo, sia perché abbiamo avuto sentore di come pure lì sia ormai penetrato il turismo. A Shashemene, 250 km a sud di Addis Abeba, abbiamo continuato diritti sull’asfalto invece di girare a destra per lo sterrato di Arba Minch e del cuore della Bassa Valle dell’Omo, cosicché siamo dovuti tornare indietro di un centinaio di chilometri perdendo mezza giornata. Volevamo dormire a Awasa, ma non c’era uno straccio di letto libero (se non in un paio di topaie allucinanti) perché è una cittadina in una posizione ideale per spezzare il viaggio da nord a sud. Abbiamo cenato lì (con vino etiope rosso e abbastanza robusto; niente male) e pernottato a Shashemene in uno squallido motel per camionisti con guardie armate fino ai denti.

Di buon mattino ci siamo diretti verso Arba Minch per tentare di vedere ad Azzo Gabaya i coccodrilli più grandi d’Africa. Abbiamo individuato il sentierino che conduceva al punto in riva al lago Abaya dove stazionano le barche solo per la precisione delle segnalazioni sui sassi (km 7,920, km 7,940, km 7,960..., incredibile ogni 20 metri). Purtroppo non c’erano più barche per l’escursione, allora abbiamo continuato verso Konso, rischiando di volare nel vuoto. In prossimità di un fiumiciattolo la strada sterrata moriva su un ponte in asfalto nuovo di zecca.


Ci siamo saliti, ma per fortuna lentamente: ne era stato costruito soltanto un pezzo! Marcia indietro, abbiamo dovuto guadare il corso d’acqua profondo mezzo metro. A Konso abbiamo sostato quel tanto da indurci a scappare subito dalla Valle dell’Omo.

Impossibile fotografare senza pagare, uno sfinimento i bambini che volevano rifilarci collanine. La sera ci siamo fermati a Yavello. Pensavamo di avvicinarci ulteriormente al Kenya, ma una guida francese ci ha avvertito della pericolosità notturna di quel tratto per le tensioni nell’area del confine.

L’albergo, vicino al distributore sulla strada per Moyale, non aveva più una stanza libera e allora siamo rimasti lì, dormendo nella sala da biliardo su un comodo materasso steso per terra per la modica circa di quattro euro in due. Il giorno dopo saremmo stati in Kenya.

Infine, un’informazione a chi ci segue con attenzione. Ci avevano scritto due bergamaschi residenti in Sudamerica: uno di San Paolo in Brasile e uno di Rosario in Argentina. Passeremo loro molto volentieri. Alla prossima.

Marco Sanfilippo

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