Anche a Bengasi ci chiedono: «Berghém de sóta o de süra?»

TOBRUK (Libia) - di Marco Sanfilippo

Ciao, eravamo rimasti a Ghadames, nel deserto libico. Ed eravamo già allora in differita, Purtroppo problemi inerenti l’invio di email attraverso il nostro satellitare e di organizzazione logistica ci hanno negato di raccontarvi la nostra avventura in tempo reale. Per fortuna anche in Libia i punti Internet sono diventati di casa, cosicché - attendendo dall’Italia l’agognato modem super veloce - possiamo recuperare emozioni e sensazioni, ormai quasi vecchie. Tra un paio di email avremo completato la nostra rincorsa e scriveremo praticamente in diretta.

Dicevamo di Ghadames. L’antica oasi carovaniera, circondata da un deserto roccioso rosso al confine con Tunisia e Algeria, si è confermata il gioiello del Sahara che ci attendevamo. Visitare la città vecchia, ormai deserta, è come tuffarsi all’indietro di quasi un millennio. Si può volare con la fantasia e immaginare la magia che pervadeva le vie quando arrivavano da Timbuktu, dal Maghreb e dall’Africa centrale le carovane ricche di profumi, spezie, metalli preziosi e avorio. Il tempo era scandito dall’acqua: sì, in una nicchia della piazza principale c’era una bottiglia - utilizzata per smistare l’acqua della sorgente nei vari canali - che si svuotava in tre minuti. I 3’ erano il kadus, l’unità di misura. Ogni kadus veniva segnato annodando una foglia di palme, cosicché si poteva sapere - interrogando il supervisore - quanti kadus fossero trascorsi dal sorgere del sole.

Ghadames (nella foto l’interno di una casa) era un cruciale centro commerciale, nel terzo millenio è diventato un museo all’aperto, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Non ci vive più nessuno da vent’anni perché non c’è acqua in casa e non c’è il garage per la macchina, in nome della modernità è stata abbandonata una meraviglia, strutturata in modo che la temperatura fosse sempre fresca nelle gallerie che costituiscono la prevalenza delle strade e che il Ghibli, il vento caldo proveniente da sud, si trasformasse in un ulteriore sollievo filtrando tra le palme. A Ghadames la temperatura supera costantemente i 40 gradi, nelle gallerie ce ne sono quindici in meno. Ora nella città vecchia circolano bambini in bicicletta, anziani con il volto velato di malinconia e muratori che mantengono in piedi la città. Le case sono sviluppate molto in verticale: costruite con una base di sassi e da mattoni di terra alternati a fango, hanno le pareti rifinite con il gesso e il tetto di tronchi di palma. I tetti erano collegati in modo da creare vere e proprie vie sopraelevate dove le donne s’incontravano dando vita a mercatini.

Internamente le case sono un gioiellino: decorate, con candele, specchi e con credenze e armadietti a muro. Da segnalare l’Al-Qubba, un baldacchino sistemato in una camera che era utilizzato nella prima notte di nozze. L’Al-Qubba è stato lo spunto per una discussione con Knasim (la nostra guida per le visita di Ghadames) che, da fervente musulmano, considera inammissibile che una donna abbia perso la verginità prima del matrimonio (naturalmente l’uomo può divertirsi come vuole con le prostitute). Se l’ha persa si prende un bel calcio del sedere dal marito dopo la prima notte di nozze e sarà emarginata per sempre. Knasim, che è un giovane culturalmente preparato (ha studiato italiano a Rimini), ha parlato della donna come di un oggetto ("Se compro una macchina nuova pretendo che non sia usata", il suo paragone) a tal punto che ci siamo scoperti femministi (da non credere...). E la sua è una posizione condivisa dalla totalità di persone che abbiamo interpellato sull’argomento.


Da Ghadames, dove ci siamo registrati (procedura obbligatoria una volta entrati in Libia), ci siamo diretti verso Tripoli, ancora 600 km nel deserto (non c’è da meravigliarsi, è il 93% della superficie del Paese). Temevamo che dovendo pagare a Saleh, la guida del nostro viaggio in Libia, vitto e alloggio, avremmo dovuto sganciare molti dinari.

Invece Saleh è peggio di noi (eccolo qui, nella fotografia) che ci nutriamo solo per sopravvivere): non mangia praticamente mai. Un giorno abbiamo resistito con cinque fichi rubacchiati da un albero e un litro di acqua ghiacciata. Quanto a dormire, abbiamo sempre speso in media 30 dinari per una camera doppia con aria condizionata, ovvero meno di 20 euro (in Libia si paga sempre in contanti, la carta di credito non è mai accettata). La Toyota è ok, anche se il finestrino anteriore sinistro stenta ad abbassarsi e la portiera del guidatore ha uno scricchiolio sinistro quando si chiude.

La prima sera a Tripoli - assorbito il trauma del traffico caotico - è stata fortunata. Abbiamo captato un canale televisivo che trasmetteva il trofeo Tim, così ci siamo goduti la vittoria della nostra Inter sul Milan ai rigori e sui gobbi juventini con la zampata di Martins (ok, per il 2005-06 siamo a posto). La mattina successiva è stata una tortura. Abbiamo lottato strenuamente con il nostro satellitare, ma siamo stati in grado, prima di perdere la connessione dopo 3’30", di leggere sul computer soltanto due delle diciotto email che ci erano arrivate. Eravamo così arrabbiati che abbiamo cancellato dalla mente la visita ai suq della medina (quasi cancellato: ci sono rimaste impresse le gioiellerie con bracciali, collane e orecchini in oro di dimensioni spaventose). Ci siamo consolati nella migliore pasticceria della città con un succo d’arancia, una pasta alla marmellata e una al cioccolato: una botta di vita. Serata invece fortunata. Era giovedì che per i musulmani è come il sabato per noi italiani, ovvero la vigilia del giorno festivo.

Il giovedì è speciale anche perché è la giornata in cui si conclude in pratica la settimana di festa per i matrimoni (qui ci si sposa sempre il sabato). Così la Piazza Verde, la più popolare di Tripoli, si trasforma in un grande balera in cui i mariti, con una collana di fiori al collo, e i loro amici ballano al ritmo di musiche arabe sparate a tutto volume dalle radio delle auto (mentre le mogli sono naturalmente a casa o al massimo confinate in un angolino). Per i bambini, non dei novelli sposi, ci sono dondoli e cerbiattini in carne e ossa come sfondo per fotografie ricordo.

Abbiamo parcheggiato la jeep davanti all’Assai al-Hambra, il castello - vecchia dimora di sovrani - famoso per essere stato scenario di una catena di omicidi, intrighi e morti misteriose. È sosta vietata, ma un poliziotto ci ha dato l’ok, un privilegio dell’essere turista.

Domandando un’informazione, abbiamo conosciuto Mohmde, un ventiquattrenne di Tripoli che ha abitato per cinque anni a Roma essendo figlio di un diplomatico che lavorava all’ambasciata libica. Ci siamo dati appuntamento un’ora dopo (stavamo entrando in un Internet point) e Mohmde ci ha condotto alla scoperta della Tripoli non turistica (apriamo una parentesi: mentre stiamo scrivendo un computer dietro di noi è andato letteramente in tilt, si sente puzza di bruciato: incrociamo le dita...). Lui è felice di essere di nuovo a Tripoli, collabora come guida in un’agenzia di viaggi e arrotonda con il mercato nero del cambio che peraltro non è molto conveniente. Ci ha raccontato di come si vive dignitosamente con uno stipendio medio (cioé da 200 a 300 euro circa: l’acqua per i consumi domestici è gratis, luce e bombole di gas hanno costi irrisori, così come la benzina), dello spirito orgoglioso e gentile del suo popolo e di come sia d’accordo su quanto ci aveva detto Knasim sul gentil sesso...

Lui non è fidanzato, ma se lo fosse potrebbe uscire di sera con la sua promessa sposa soltanto in compagnia di un parente di lei. La situazione sta lentamente cambiando, anche la Libia si sta occidentalizzando, tuttavia le tradizioni di base restano ben radicate. Mohmed ci ha garantito di essere un buon musulmano, ma ci ha confidato che adora il vino (vizio importato dall’Italia) e che talvolta si diverte... Insomma...

Grazie a Mohmed abbiamo scoperto cosa vendevano in Tunisia, quasi al confine con la Libia, in taniche di plastica: carburante. In Libia un litro di gasolio costa l’equivalente di dieci centesimi di euro, un quarto che in Tunisia, cosicché i tunisini attraversano il confine, fanno il pieno, rientrano nel loro Paese, scaricano tutto il carburante e, talvolta spingendo la macchina perché non è rimasto più un goccio di benzina, rifanno la spola con la Libia. Era passata mezzanotte, ma c’era gente dappertutto, giovani e vecchi.

Sul lungomare, in strada e nei bar dove si chiacchierava, si giocava a carte, a scacchi e si fumava il narghilé, la lunga pipa che si appoggia a terra. I negozi erano ancora aperti, in centro spiccavano quelli d’abbigliamento all’occidentale (con biancheria intima in bella mostra), accanto a rifiuti: c’era pure una parabola satellitare ammaccata. Abbiamo offerto a Mohmed un hamburger in un McDonald libico (un’imitazione del colosso americano). Ci siamo salutati con la promessa di rivederci un giorno. Inshallah, è stato il suo commiato, se Dio vuole. Ci stavamo quasi scordando di dirvi che lo sport preferito dai libici è l’attraversare la strada evitando le auto in corsa. Non si preoccupano minimamente della velocità delle macchine (e ne circolano di scassate, di marca francese, accanto ai nuovi modelli giapponesi e coreani): quasi le sfidano, sapendo che il guidatore comunque non li investirà e dovrà frenare o deviare alla disperata. Abbiamo sperimentato un po’ spaventati, divertente...


Il giorno dopo abbiamo visitato il museo della Jamahiriya di Tripoli ammirando, accanto a stupendi pezzi d’arte classica mediterranea, il Maggiolino azzurro usato dal bizzarro Gheddafi durante la rivoluzione del 1969.


Il programma prevedeva la tappa a Leptis Magna, una delle città romane più belle del Mediterraneo. Naturalmente l’abbiamo visitata a mezzogiorno in punto (non c’era quasi nessun turista), dimenticando nel fuoristrada la borraccia d’acqua. Per fortuna il caldo non era insopporabile, a mitigarlo il venticello proveniente dal mare.

La riflessione è stata che i romani si godevano la vita: in una città avevano costruito straordinarie terme, una grande palestra all’aperto, uno splendido teatro (nella fotografia), un anfiteatro da 16.000 spettatori e uno stadio (450 metri x 100) da 25.000, di cui restano peraltro solo le fondamenta. La notte l’abbiamo trascorsa a Al-Khoms, lì vicino.

Domenica ci siamo sciroppati 900 km sulla costa (in macchina dalle 7,30 alle 15,30, una tirata unica) per approdare a Bengasi. Deserto, sempre deserto con cespuglietti, i consueti rifiuti e i tralicci dell’alta tensione come scenario. Saleh ci ha dato il cambio perché ci stavamo addormentando al volante. La guida ha pigiato sul pedale dell’acceleratore e i 140 km orari hanno aumentato a dismisura il consumo del fuoristrada (nemmeno 6 km al litro). (Nella fotografia un camion Iveco vecchio di 30 anni incontrato durante la sosta a un distributore).

Abbiamo attraversato Sirte, la città in cui è nato Gheddafi, i controlli sono più ferrei (pare che il leader dimorasse lì in quei giorni) e la propaganda del colonnello, improntata a un’unione africana quantomai improbabile, è accentuata sui cartelli stradali. Le prime strutture petrolifere in lontananza (in Libia è presente l’Agip).

A Bengasi abbiamo scoperto la vita da mare. Premesso che in Libia le strutture turistiche per soggiorni balneari sono quasi inesistenti, abbiamo scovato una spiaggia attrezzata (campo di calcio, ristoro, windsurf, gommoni...) in cui l’unica differenza con l’Italia era purtroppo rappresentata dal look decisamente abbottonato dell’universo femminile. I bikini sono un sogno. Solo le bambine avevano il costume.

Le più grandicelle entravano in acqua con il velo e improbabili pigiami da bagno, mentre le donne si astenevano dal mostrare un centimetro di pelle, al di là del viso. La spiaggia era divisa in due settori, per famiglie e per uomini soli. Il manager della struttura ci ha invitato a non fotografare donne e famiglie.

Un suo amico, Saleh, si è presentato e, quando ha sentito che eravamo di Bergamo, ha esclamato in un dialetto approssimativo: «Berghém de sóta o de süra?». Sì, conosceva la nostra città, definita a dimensione d’uomo, perché nei primi anni Settanta aveva studiato all’Euroschool dopo essersi innamorato di una bergamasca. In serata abbiamo cenato (finalmente) a base di pesce e abbiamo visto la nostra prima Fiat, una Panda malridotta: sì, in Libia non circolano auto della casa torinese, mentre quasi tutti i camion sono Iveco (e numerosi hanno una trentina d’anni).

Ci restano due giorni in Libia da raccontare: domenica abbiamo salutato Bengasi vedendo ai rondò poveri egiziani che attendevano un lavoro giornaliero. Uno aveva uno spazzolone gigantesco, probabilmente per lavare i vetri dei pullman. Finalmente il paesaggio è cambiato: l’1% della superficie coltivabile della Libia si concentra nell’area di Bengasi e la crescita dell’agricoltura è stata favorita dall’acqua sotterranea del deserto nel cuore del Sahara che è stata trasportata sulla costa da condutture lunghe migliaia di chilometri (è il faraonico progetto del Grande Fiume concepito da Gheddafi e parziamente realizzato).

Ecco dunque bancarelle sulla strada con svariata frutta (invitanti i meloni e l’uva nera), miele e olio d’oliva. Non è che in precedenza non ne avessimo mai viste, ma ci domandavamo da dove diavolo potessero provenire questi prodotti della terra considerando che eravamo circondati del deserto. Ed ecco furgoncini con stipate pecore e mucche invece dei cammelli. La guida ci ha convinto a visitare il museo con i mosaici bizantini di Qasr Libya ed è stata un’esperienza indimenticabile.

Atmosfera di campagna. Il guardiano del museo (nella fotografia), un omone con una tunica violetta e un turbante bianco, si stava riparando dal sole sotto un albero. Sedeva su un tappeto bianco e blu, aveva una brocca d’acqua, un pezzo di pane e, su un vassoio d’argento, c’era una teiera con due bicchierini di vetro. Si è alzato, ha tirato fuori un mazzo di chiavi (abbiamo pensato che fosse quello di un antico forziere) e ci ha aperto il museo che è a fianco di una chiesa diroccata. Completata la visita, ci ha offerto un bicchierino di thè rosso, molto dolce ma dall’aroma paradisiaco, e si è informato sul nostro viaggio, sorprendendosi che avessimo un anno di vacanza.

«Sì - abbiamo risposto -, ma una sola volta nella vita». Infine ci ha stretto la mano augurandoci buona fortuna. Ripresa la strada, abbiamo attraversato Wadi al-Kuf, un’area collinare e boschiva dove i libici amano fare il picnic. E dove c’è un ponte costruito dall’esercito italiano che segna il punto in cui le forze di Omar al-Mukhtar, l’eroico capo della resistenza libica catturato a Slonta e giustiziato nel 1931, bloccò temporaneamente l’avanzata del generale Graziani.


Eccoci a Cirene: l’antipasto è stato il bellissimo tempio di Zeus, peraltro in stato di abbandono (come guardiani c’erano due pastori con il gregge...), il clou la visita a Cirene, un’antica città greca da non perdere (nella foto un particolare).

Naturalmente era l’una del pomeriggio ed eravamo senz’acqua. Notte ad Al-Bayda e mattino del lunedì dedicato ad Apollonia, città greca che era il porto di Cirene (nella foto). Qui, però, più che dai resti archeologici siamo stati attratti dal mare, di uno splendido blu cobalto. Abbiamo conosciuto sei fratelli, di cui uno pastore (c’erano le pecore in riva al mare), pazzi per la play-station, e con loro ci siamo tuffati dagli scogli. E abbiamo anche incrociato un pescatore che ci ha invitato a trascorrere dieci minuti con lui.


Ah, ci stavamo scordando: per la prima volta dalla nostra partenza sono comparse le nuvole in cielo dopo giorni di caldo torrido, anche se secco.

A Tobruk ci siamo voluti fermare al cimitero di guerra di Knightbridge. Non ci sono salme di italiani (che sono state tutte rimpatriate), ma ci è venuta la pelle d’oca a vedere le 3.649 tombe di soldati di tutto il mondo (in primis inglesi, neozelandesi, sudafricani e australiani) e a pensare a quella immane tragedia.

Tobruk è stata l’ultima tappa in Libia (sotto nella foto la jeep all’ultimo distributore). Domani vi racconteremo l’avventurosa entrata in Egitto.


(28/07/2005)

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