Cronaca
Mercoledì 11 Agosto 2004
Cento anni fa in questa Chiesa l’inizio di una stupenda storia
Pubblichiamo l’omelia del vescovo di Bergamo, mons. Roberto Amadei, alla Messa celebrata martedì pomeriggio nella chiesa di S. Maria in Monte Santo, a Roma, la stessa dove il 10 agosto 1904 venne ordinato sacerdote Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII
Eleviamo al Signore il nostro commosso grazie per la stupenda storia iniziata cento anni or sono in questa Chiesa: la straordinaria storia del sacerdozio del Beato Giovanni XXIII; la storia della sua vita che si è identificata con il ministero sacerdotale, desiderato e preparato con impegno, vissuto con quotidiana gratitudine e costante fedeltà al Signore nel generoso servizio alla Chiesa e all’umanità. Sempre ha voluto essere fedele al dono ricevuto in questa Chiesa: «Da quando nacqui io non ho mai pensato che ad essere prete. Guardando al vostro Patriarca, cercate il sacerdote, il ministro della grazia e non altra cosa, perché egli vuole tradurre nel suo ministero questa vocazione datagli da Dio. Di conseguenza sacerdotale vuol essere la sua opera nelle molteplici missioni affidatemi dalla Santa Chiesa, a contatto con uomini di altre religioni e di altre razze. È stata mia costante preoccupazione di manifestare la nota pastorale e ne sono contento». Così si presentava ai veneziani.
Il suo cammino sacerdotale è sempre stato ricolmo di gratitudine per «l’atto più solenne» della vita che lo ha trasformato «in un altro se stesso» rendendolo per sempre segno e servo di Cristo Buon Pastore. Nella lunga esistenza non si è mai attenuata, anzi è cresciuta continuamente, la commossa meraviglia per quanto il Signore aveva iniziato ad operare nella sua «povera» persona con l’ordinazione sacerdotale.
Riconoscente al Signore perché, soprattutto dopo l’ordinazione, comprende la verità dell’affermazione - che ritorna frequentemente nel Giornale dell’anima - «Dio è tutto, io sono nulla»; un «nulla» ospitato e amato dal Cuore di Cristo e del Padre e da loro coinvolto nella sublime fatica di far crescere il Regno di Dio ovunque. Gratitudine verso Dio e per le diverse componenti del popolo di Dio che avevano preparato e sostenevano continuamente il suo ministero: i familiari, il seminario di Bergamo e quello di Roma, la Chiesa bergamasca, le realtà ecclesiali che ha incontrato, in particolare il centro della cristianità, il Papa. Al prozio Zaverio scriveva: «Voi sapete quale sia la mia riconoscenza per voi che avete avuto tanta parte nella mia ecclesiastica educazione. Più di me vi saprà ringraziare il Signore del bene che mi avete fatto». Ai genitori: «Da quando sono uscito di casa, verso i dieci anni, ho letto molti libri e imparato molte cose che voi non potevate insegnarmi. Ma quelle poche cose che ho appreso da voi sono ancora le più preziose ed importanti e sorreggono e danno valore alle molte altre che appresi in seguito, in tanti e tanti anni di studio e di insegnamento».
Considerando la sua vita, e il ministero sacerdotale compimento di essa, come dono continuo del Signore e degli altri, e sentendosi sempre nelle mani e nel cuore del Padre e dei fratelli, gli riusciva spontaneo lo sguardo di gratitudine, la capacità di cogliere innanzitutto il positivo delle situazioni e soprattutto delle persone e la fiducia in Dio gratuitamente all’opera nella sua esistenza e nella storia delle altre persone, della Chiesa e dell’umanità. Durante la prima guerra mondiale così annotava nel suo diario: «Il mondo è molto più cattivo, ma anche molto più buono di quanto noi pensiamo, e il compito nostro sacerdotale più che di sciupare lunghe ore in continui piagnistei e recriminazioni che a nulla giovano, è di lavorare e di cogliere il bene dovunque si trovi ed alla luce incontaminata dei principi elevarlo e moltiplicarlo; io faccio la figura dell’ottimista impenitente. Eppure non so essere diversamente. Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene. E siccome noi siamo chiamati a fare il bene più che a distruggere il male, ad edificare più che a demolire, per questo parmi di trovarmi apposto e di dover proseguire per la mia via di ricerca perenne del bene, senza più curarmi di modi diversi di concepire la vita e di giudicarla». Anche nei momenti più difficili non si smarriva perché sicuro delle mani che lo guidavano e certo che il Signore avrebbe reso comunque fecondo il suo ministero aldilà di ogni suo merito o attesa. È stato realmente il povero del Vangelo che ha riposto la sua fiducia esclusivamente in Colui che lo aveva chiamato alla vita e al sacerdozio.
Da questa fiducia è scaturito l’impegno costante nell’assecondare la grazia del Signore, nel rispondere all’amicizia gratuitamente e abbondantemente offerta da Gesù Cristo: «Oh! l’amicizia di Gesù! È la nostra vita, è il segreto che spiega la nostra esistenza: la vocazione, il sacerdozio, l’apostolato dei giorni futuri. Gesù ci ha chiamati attorno a sé per rivelarci le tenerezze del suo cuore, avviarci sul cammino della virtù, fare di noi fragili canne del deserto, colonne del suo tempio, strumenti validissimi della gloria sua». Così parlava poco tempo dopo l’ordinazione agli alunni del Seminario romano. Sovente, anche da Papa, per esprimere questo rapporto amicale con Gesù Cristo - fondamento e forma del suo ministero - ricorre al dialogo tra Cristo Risorto e Pietro: « L’amore sta dunque nel mezzo, Gesù lo chiede a Pietro e Pietro lo assicura. Il successore di Pietro sa che nella sua attività è la grazia e la legge dell’amore, che tutto sostiene, vivifica ed adorna, e in faccia al mondo intero è nello scambio dell’amore tra Gesù e lui … che la Chiesa Santa si aderge».
Questa tenera e forte amicizia si è concretizzata nella fedeltà a Gesù Cristo, continuamente pensato, amato e imitato come unico punto di riferimento della sua esistenza. Nella preparazione all’ordinazione sacerdotale «venne maturando sempre più forte nel mio spirito un vivo desiderio, un proposito di completo annientamento di tutto l’essere mio in mano, accanto al Cuore di Gesù, perché spogliandomi di tutto me stesso il mio maestro divino mi avesse più docile ai suoi cenni, più valido strumento a fare del bene, del gran bene nella Chiesa, non in luoghi e in modi che il mio amor proprio preferisce, ma semplicemente, ciecamente, abbandonandomi alla volontà dei superiori». E per tutta la vita è sempre stato fedele a tale proposito.
Nel 1928, smentendo «chiacchiere sul mio povero nome per eventuali traslochi», scriveva al parroco del suo paese: «Non credete a nulla. Non c’è nulla di vero nelle supposizioni che qua e là si possono fare. D’altra parte io non ho altro desiderio che di fare onore alla mia divisa: Obedientia et Pax. Non l’ho scelta per caso. Come Scipione fu detto l’Africano, così io sono ben disposto a diventare il Bulgaro. Questa è la nostra vera gloria nella Chiesa del Signore: cercare il Regno di Gesù Benedetto dove la Provvidenza ci vuole e non dove possono portarci desideri di comodità, di vanità o di gloria che è mondana anche se concepita da ecclesiastici o per apparenti motivi di merito o di maggior opportunità di ministero o di servizio della Chiesa. Il Signore e la Chiesa si servono di noi, ma non hanno affatto bisogno di noi».
Così scriveva alla nipote suora nel 1951: «Il tuo zio vescovo non ti può rivelare tanti segreti ma questo ti può dire che lo sforzo imparato e mantenuto sin da ragazzo di cercare proprio in tutto la volontà del Signore e non la volontà o il gusto mio, con grande semplicità, con attenzione a contare per niente su di me, a tutto confidare nel Signore, mi ha mantenuto in tale pace ed in tale tranquillità di spirito, sempre, da sentirmi poi portare, senza che lo immaginassi o me ne accorgessi ai punti più elevati nel governo e nel servizio della Santa Chiesa, senza sgomenti. Se qualcosa non mi riesce e va male non faccio fatica a riconoscere la mia miseria; se riesce e riesce bene, lo debbo tutto al Signore». Quindi, riconoscendosi un dono continuo del Signore, con gioia e serenità, ha accettato di viverlo secondo la volontà del Donatore, l’unico capace di portarlo a compimento.
La sua serenità e libertà anche nelle situazioni più difficili scaturivano dalla consapevolezza che pure in tali momenti era possibile stare davanti a Dio come spazio totalmente disponibile a ciò che Egli voleva operare nella sua vita per il bene di tutti.
Una dedizione imparata alla scuola del Crocifisso letto, contemplato e assimilato nell’assidua frequentazione della Bibbia. A un sacerdote novello scriveva: «Ti vorrei inebriato di S. Scrittura, non tanto a ripetizioni di frasi, ma a ruminazione abituale di dottrina, di spirito, di esperienza». L’augurio esprimeva il suo modo di intendere e vivere il sacerdozio: essere eco perfetto della parola vivente di Dio, saper leggere nella storia la presenza e l’opera di Dio per assecondarla nella propria vita, in quella delle singole persone, della Chiesa e dell’umanità intera.
Crocifisso accolto con cuore aperto nella celebrazione eucaristica quotidiana e nella Liturgia delle Ore: «Il breviario mi trattiene lo spirito in continua elevazione, la Santa Messa lo immerge nel cuore, nel sangue di Cristo. Oh, che tenerezza e che delizia riposante, questa mia Messa».
La ricchezza e la concretezza della condivisione della dedizione di Gesù Buon Pastore, l’ha imparata e vissuta nella e con la Chiesa accolta, amata e studiata con passione nelle luci e ombre del suo passato e del suo presente, nelle vicende della Chiesa universale e in quelle delle Chiese locali, nell’attenzione rispettosa e docile alle altre confessioni cristiane. L’ha vissuta, esperimentandone l’inesauribile fecondità, nell’ospitare nel suo cuore le persone, i diversi popoli incontrati e l’intera umanità. Vivere l’alleanza filiale con Dio ha significato per lui accogliere con riconoscenza e donare con gioia a tutti l’ospitalità gratuita, universale, misericordiosa del Cuore di Cristo. Ha compreso che questa ospitalità è la verità e la grandezza di Dio e dell’uomo, e che il compito fondamentale del prete sta nell’annunciare con fiducia e speranza, celebrare con fede profonda e con trasparenza testimoniare, in ogni compito e in ogni momento, questo centro della rivelazione cristiana, quotidianamente contemplato e assimilato nella Parola e nell’Eucarestia: «La mia funzione è di dare acqua a tutti. Il lasciare una buona impressione anche sul cuore di un birbante mi pare un buon atto di carità che a suo tempo porterà benedizione. Che poi si dica che queste cose accadono al "buon" monsignor Roncalli, poco conta. Sorrido, guardo in alto e procedo per la mia strada». Così scriveva durante la permanenza in Turchia. Questa «buona impressione» (che è l’annuncio autentico del Vangelo) l’ha seminata nelle diverse realtà da lui servite, nelle persone incontrate, da Papa l’ha offerta alla Chiesa universale e all’umanità intera. Ai cristiani ha mostrato come si realizza la parola evangelica ascoltata oggi: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo»: e Gesù è sempre nel servizio all’umanità e alle singole persone. «Dio ama chi dona con gioia», cioè chi gli permette di realizzare il suo desiderio di mostrare a tutti la sua gioia nell’amare ogni suo figlio. In Lui, in modo straordinario, è apparso il volto umano che tutti, almeno implicitamente, desiderano: l’uomo che sentendosi ospitato gratuitamente dal Padre comune diviene casa ospitale per tutti, e da tutti si sente arricchito e con tutti si condivide. E ha mostrato che tale umanità è possibile sempre a tutti, pure nei momenti più difficili, ed è l’unica capace di rendere vivibile il presente e di fondare la speranza per il futuro di tutti; per il futuro prossimo e quello definitivo presso il Risorto.
Ringraziamo il Signore per questo storia straordinaria, e per intercessione del Beato Giovanni XXIII chiediamo la grazia di non limitarci a celebrare le «grandi cose» operate in lui dal Signore, ma di deciderci a lasciarci illuminare, purificare e stimolare dal suo modo di rispondere all’instancabile ed inesauribile amore del Signore perché anche le nostre piccole ma preziose storie siano segno dell’inesauribile dedizione di Dio al bene dell’umanità e di ogni singola persona.
(10/08/2004)
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