Francesco Rosi, il regista
che raccontò intrighi e soprusi

Se n’è andato per sempre a Roma, a 92 anni, Francesco Rosi, uno dei più importanti registi italiani, autore di un cinema di inchiesta e di denuncia che ha testimoniato nel mondo, oltre che a noi stessi, un’Italia che cerca di capire le proprie cadute, anche abissali, e di ragionarci sopra onestamente e in modo convinto, per combatterle e per risollevarsi con dignità.

Debuttò come regista nel 1958 con «La sfida», ardita denuncia della camorra napoletana, ottenendo il premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia. Il secondo film, «I magliari» (1959), con Albero Sordi, conduce in Germania sulle piste dei contrabbandieri nostrani. Poi arrivano «Salvatore Giuliano» (1962), sulla strage di Portello della Ginestra del ’47, «Le mani sulla città» (1963, Leone d’oro a Venezia), sulle incontrollate speculazioni edilizie e gli intrallazzi politici a Napoli, «Il caso Mattei» (1972), Palma d’oro al festival di Cannes.

E poi ancora «Lucky Luciano» (1973), sul capomafia destinato ad essere ucciso, «Cadaveri eccellenti» (1975), sulla strategia della tensione e i «delitti di Stato», «Dimenticare Palermo» (1990), sul traffico internazionale di droga, «Cristo si è fermato a Eboli», dal romanzo di Carlo Levi, «La tregua», dai ricordi di Primo Levi sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti. «Il filo del mio discorso cinematografico – disse Rosi – è l’analisi del potere, la sua logica interna, i suoi tessuti connettivi, la scoperta del suo vero volto».

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