Namibia, la Germania d’Africa

BUENOS AIRES (ARGENTINA) - Sono di nuovo in Argentina, all’ostello El Cachafaz che diventerà probabilmente il tetto sotto il quale avrò dormito di più nel corso nel giro del mondo, 19 giorni in totale. La jeep è finalmente sbarcata nel porto di Buenos Aires sabato 3 dicembre in un container dopo undici giorni di navigazione e, quando leggerete questa puntata del raid, l’avrò ritirata (almeno è la fondata speranza) alla conclusione di un complesso, quasi comico iter burocratico-doganale (comprensivo di mazzetta) e la Patagonia si trasformerà da sogno in realtà.

Rush finale sull’Africa con le puntate dedicate a Namibia e Sudafrica. In Sudamerica senza fuoristrada non ho ancora combinato nulla di straordinario, se si eccettua un’incredibile esperienza con i ragazzi di strada di Sao Paulo. Sono stato abbastanza inattivo, anche perché così ho ridotto notevolmente il gap tra il racconto su internet e la situazione attuale.

Quando abbiamo salutato il Central Kalahari pensavamo di fermarci a dormire prima del confine con la Namibia e invece la Trans Kalahari Highway era così invitante che abbiamo deciso di tentare di arrivare in giornata a Windhoek, capitale della Namibia (qui a lato uno scorcio al tramonto). Al confine ho avuto la lieta conferma che Botwsana, Namibia e Sudafrica sono legate da un accordo doganale per il quale il carnet de passage (il documento che consente l’importazione temporanea di un veicolo) che mi era stato controllato all’entrata in Botswana sarebbe stato timbrato nuovamente soltanto uscendo dal Sudafrica. Come se i tre Paesi fossero uno. Ho così salvato due pagine preziosissime.
Mi spiego. Molti Paesi extraeuropei, ma fortunatamente non tutti, esigono il carnet di passage. Il problema è che il carnet ha soltanto 25 pagine, quindi io devo passare al massimo in 25 Paesi che lo timbrano. Dal ventiseiesimo prevedo complicazioni perché l’Aci pare che non conceda un carnet supplementare. Carnet che tra l’altro dura un anno, ma io nel luglio prossimo sarò ancora in Mongolia. Ci penserò a tempo debito.

Come in Botswana, i cittadini italiani possono entrare in Namibia senza il visto, ma ho dovuto pagare 12 euro di tassa per il fuoristrada. Anche al confine di Buitepos accettano soltanto la valuta locale, così siamo dovuti entrare nel Paese per qualche centinaio di metri, cambiare il denaro in un punto di ristoro sulla strada e sistemare la pratica. Ormai non parlo più dei controlli al fuoristrada perché, superato il Sudan, nessuno ha mai perso un minuto per guardare dentro il finestrino. Diciamo subito che la Namibia, escluso naturalmente il panorama, che è assolutamente originale, sembra un pezzetto di Germania trapiantato in Africa, perlomeno nei centri urbani. Ci sono più persone bionde e con la pelle chiara che neri, la mentalità e l’organizzazione sono d’impronta teutonica. L’abbiamo notato immediatamente nel punto di ristoro: era identico a quello in cui ci si imbatte in un autostrada tedesca, wurstel con i crauti e via dicendo.... Le capanne che mi hanno accompagnato per mezza Africa qui sono praticamente inesistenti. Resistono soltanto nelle rare aree ancora arretrate.

La Namibia, indipendente al 1990 e ricchissima di minerali (numero uno al mondo per giacimenti di diamanti, uranio a valanga), ha la minor densità di popolazione al mondo, appena 2 persone per chilometro quadrato (sono meno di due milioni in un territorio grande quasi il triplo dell’Italia); noi, in due sul fuoristrada, eravamo già una folla. Splendida strada asfaltata, ma facoceri ai bordi della strada, con il buio e la stanchezza accumulata sono arrivato abbastanza cotto a Windhoek dopo una tirata di 989 chilometri, di cui 250 di sterrato (sopra nella fotografia) in Botswana. In Namibia ho percorso circa 2.500 chilometri di strada non asfaltata, ma si è trattato quasi sempre di terra battuta priva di asperità. Erano le dieci di sera, ci siamo precipitati in un ostello che non aveva più un letto disponibile, tuttavia c’era spazio per campeggiare, così io ho dormito ancora nel fuoristrada, praticamente nel centro della città.

Atmosfera molto giovanile. Bevendo birra ai bordi della piscina, ho ascoltato sulla Cnn le ultime su un’Alitalia sempre più in crisi (ma a Sao Paulo ho visto un suo aereo, allora esiste ancora) e ho letto su un giornale una notizia curiosa. Voi che avrete riso leggendo dell’asino investito in Sudan sappiate che in Africa è realmente un problema tanto che in Namibia, dove il 25% degli incidenti è causato da animali in mezzo alla strada, soprattutto somari, stanno pensando di appiccicare sul sedere degli asini una sorgente luminosa in modo da poterli individuare di notte.

A Windhoek abbiamo scoperto immediatamente una nuova categoria africana di lavoratori (comune anche in Sudafrica): quella dei guardiani di autoveicoli. Si parcheggia e se ne presenta subito uno che garantisce che nessuno sfiorerà il fuoristrada, naturalmente in cambio di una mancia che io ho sempre dato per maggiore sicurezza. Dovevamo pianificare il viaggio in Namibia che sarebbe durato due settimane. E io volevo passare all’ambasciata italiana dove lavora Gloria Ferrari, figlia di Roberto, un bergamasco di Castione che ha elettrificato mezza Namibia. A Windhoek c’era una colonia di bergamaschi che ha contributo a costruire il Paese, 30-35 anni fa erano più di 200, ora sono una quarantina, in prevalenza figli di liberi professionisti. Gloria mi ha parlato di Natalina Poloni che abita vicino all’ambasciata. Ci sono andato e Natalina si è rivelata di una gentilezza squisita.

Abbiamo dormito nella sua casa due notti e ho visto, per la prima volta dopo la partenza, una trasmissione televisiva italiana. Era un dibattito sulla Finanziaria trasmesso da Rai International. Purtroppo è stato come al solito un continuo scambio di accuse tra i due schieramenti, senza nulla di costruttivo e con numeri che ballavano a seconda della convenienza, insomma robaccia da voltastomaco.

Roberto Ferrari (nella fotografia qui sotto) è venuto un giorno a bere un caffè e abbiamo chiacchierato. Ora, a 65 anni, è un uomo ricchissimo praticamente in pensione visto che ha ceduto le redini della sua società, la General Eletric, al figlio Daniele, 36 anni, che ha studiato a Cape Town, in Sudafrica.

Roberto arrivò in Namibia nell’aprile 1966, dopo aver tentato la fortuna in Svizzera (come pastore, a 11 anni, e come elettricista dopo un corso a Berna), sulla scia del clusonese Giacomo Bonadei, uno dei più grandi costruttori edili dell’Africa australe, che nel 1965 era sbarcato in Namibia con un centinaio di operai e artigiani. Con il fratello Elio fondò una società che non aveva concorrenza e che ha dato la luce a case, scuole, ospedali e strade soprattutto nel nord del Paese. Roberto è riconoscente alla Namibia perché «non mi penalizzò per il mio passaporto e la mia quinta elementare ma mi domandò soltanto cosa sapevo fare» e dei quarant’anni in Africa ricorda «la grande umanità dietro la povertà».

Anche Natalina (qui a lato), 59 anni, originaria di Fino del Monte, mi ha riassunto la sua storia. È vedova dal 2004, suo marito era Carlo Visini, un falegname clusonese che è morto per 65 anni per un infarto. Il suo hobby era lavorare, ma ha esagerato. Si sposarono e nel 1976 si trasferirono in Namibia, ma Carlo era già lì dal 1965. I primi tempi eroici (perché si costruiva nel nulla) a Rundu e per più di vent’anni a Oshakati, sempre nel nord del Paese, quasi al confine con l’Angola. Carlo rientrava a Windhoek una volta al mese, una vita per la falegnameria. Natalina mi ha mostrato la copertina di una rivista dell’Air Namibia del gennaio 2003 in cui è ritratto lo splendido portone del convento delle Povere Clarisse che fu realizzato dal marito vicino a Windhoek: un gioiello, un’autentica opera d’arte finemente intarsiata in legno pregiato. Natalina vive da sola perché le due figlie Katia e Claudia, formatesi a Cape Town, lavorano a Londra. Lei non sa cosa fare, due volte all’anno vola in Italia, ma quando è nella nostra città rimpiange il sole africano. Forse il suo futuro sarà ancora nel continente nero, ma in Sudafrica con le figlie. Natalina crede nel potere terapeutico dei minerali e difatti in casa sua ci sono pietre sparse dappertutto, io invece ho manifestato scetticismo sull’argomento. Alla partenza ci ha regalato un pezzetto di grana, un chilo di limoni, ma nessuna pietra portafortuna.

Tracciato il percorso di massima (da Windhoek a Nord e quindi discesa a sud prima di entrare in Sudafrica) e prenotati i campeggi all’Etosha Park (tra ingresso e pernottamento abbiamo pagato ciascuno 27 euro per notte), ci siamo tuffati nell’ennesima avventura. Sulla strada per l’Etosha Park abbiamo deviato a Est per vedere, non lontano da Grootfontein, il meteorite di Hoba, il più grande del mondo. Diforma cubica, pesa 50 tonnellate, è composto per il 82% da ferro e per il 16% da nickel e cadde sulla Terra circa 80.000 anni fa.

La prima notte all’Etosha Park l’abbiamo trascorsa a Namutoni, nel settore Est del parco. Dal campeggio totalmente spartano del Central Kalahari al resort namibiano con il forte tedesco dalla cui torre si può ammirare il tramonto, sistemazioni più o meno lussuose (chalet, appartamenti/suite), un’area campeggio attrezzata, un negozio di alimentari, ristorante, bar, piscina, internet point e distributore di benzina.

Il primo giorno abbiamo avuto il tempo di visitare un’area limitata del parco avendo comunque modo di apprezzarne subito il territorio. Non c’è molta vegetazione, ci sono spazi immensi e diversi tra loro, come una grandissima depressione salina bianca e verdastra, per cui è agevolata l’osservazione della fauna che si concentra nelle pozzed’acqua sparse dovunque. Guidare nel parco dopo il tramonto è vietato per cui si deve rientrare in tempo, così come si deve attendere l’alba per dare la caccia ai predatori che sono attivi soprattutto di notte e nelle prime ore del mattino.

Da Namutoni ci siamo diretti verso il campeggio di Okaukuejo (qui sotto l’ingresso), nel centro-sud delparco. Spettacolo bellissimo: le pozze erano un cocktail di animali, si vedevano insieme elefanti, giraffe, zebre antilopi, gnu e bufali. Ma erano tutti sul chi là.

Sì, perché leoni e leonesse se ne stavano beatamente a osservare la scena all’ombra. Io sono sceso cinque secondi dal fuoristrada per fotografare il via vai alla pozza e, quando sono risalito, il conducente di un pullman mi ha scherzosamente domandato se mi! interessava essere la colazione di un leone.

Sì, perché dietro di me, anche se molto lontano, ce n’era uno appisolato con due leonesse e io non mi ero accorto della loro presenza. La scenetta più divertente è stata quando due struzzi con i cuccioli hanno deciso di bloccarsi in mezzo alla strada fermando la circolazione.

Dopo la prima sera al ristorante, a Okaukuejo abbiamo optato per l’alternativa più economica.

La preparazione del riso è stata così laboriosa e la cena così rilassante che ci siamo scordati che accanto al campeggio c’è una pozza d’acqua illuminata dove la sera non è difficile ammirare i rinoceronti. Me ne sono ricordato alla partenza il mattino dopo, siamo passati lì attendendo una ventina di minuti infruttuosamente.

La buona sorte era tuttavia dietro l’angolo perché, non appena varcato il cancello del campeggio (sotto, la tenda), sulla strada per l’uscita dal parco, ci siamo imbattuti in una fila indiana di leoni e leonesse, che gironzolavano sull’asfalto e nella savana. Intasamento di fuoristrada, guerra di posizione, teleobiettivi puntati, fotografie a raffica.

Secondo obiettivo Opuwo, non lontano dal confine con l’Angola, per visitare un villaggio himba e conoscere i segreti di una popolazione indigena decisamente stravagante. Abbiamo sostato a Kamanjab dove, accanto a un distributore di carburante, c’è uno dei più incredibili negozi che abbia mai visto, in considerazione della sua posizione decentrata. Non era molto grande come superficie, ma c’era in vendita l’inimmaginabile: alimentari, abbigliamento, accessori per il campeggio, per il computer, ricambi per automobili, attrezzi per il fai da te, di tutto di più, un paradiso per il turista.

A Opuwo una guida conosciuta in strada ci ha indicato un resort nuovissimo, abbiamoscelto di campeggiare nelle piazzole, che erano in pratica giardini con una bella vista, sfruttando la piscina e il ristorante della struttura principale. La piscina (qui a lato) è stata costruita in una posizione splendida, se si scatta una fotografia dal basso sembra un lago con le montagne sullo sfondo. Un po’ di relax, in attesa dell’esperienza indimenticabile in una famiglia himba.Marco Sanfilippo

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