Miro Radici: «Il made in Italy navighi all’attacco»

Miro Radici: «Il made in Italy navighi all’attacco»«Non vorrei essere irriverente...». Miro Radici, gli occhiali da presbite che scivolano verso la punta del naso, il sopracciglio sinistro alzato, spinge i fogli di carta che ha davanti un po’ lontano sul tavolo e guarda in faccia il pubblico del Meeting, centinaia di persone venute a sentire in sala C2 la risposta degli imprenditori alla domanda: «Qual è il futuro del "made in Italy"?».

Ha voglia di giocarsela fino in fondo, com’è nel suo stile. «Cristoforo Colombo» dice. Macché Cina, macché dazi! Bossi, Tremonti e compagnia arroccando, non hanno capito la sfida. Qui bisogna mettere la prua in mare aperto; piuttosto farsi prestare i soldi dalla regina di Spagna ma il Far East, se questa guerra si vuole davvero vincerla, bisogna prenderlo alle spalle. Giocare al contrario sulle rotte della globalizzazione: non difendersi ma attaccare.

È una questione di ormoni, dice Radici: «La voglia del navigatore è tale che lui parte»; con un progetto economico, una carta firmata in tasca, ma soprattutto con il gusto della scommessa. «Nei nostri geni c’è sempre una grande voglia di cambiamento. Siamo ogni giorno alla ricerca di sfide, sempre più importanti, e anche quando non ci sono ce le inventiamo. Perché in noi c’è un desiderio sempre insoddisfatto di andare aldilà».

L’esempio di San Francesco

Roba da uomini. Radici fa un altro esempio: San Francesco. Come imprenditore - penseremmo noi - era uno zero: lasciò ogni ricchezza e visse di elemosine... Per lui tutt’altro, era anche lui un professionista del rischio, aveva di mira un guadagno: «Decise di abbandonare il percorso di vita facile che gli aveva preparato la famiglia, e di andare oltre. Ha detto don Giussani a chiusura di un Meeting: "Ragazzi, vi auguro di non essere mai tranquilli". Mi è piaciuto. Questo stesso desiderio c’era nel cuore dei grandi uomini del passato e, permettetemi, c’è anche nel cuore di noi imprenditori. Se volete raggiungere degli obiettivi non abbiate paura, prendete ad esempio grandi personaggi».

È l’ultimo a parlare Radici, dopo un imprenditore del calibro di Colaninno. Nel parterre ci sono decine di bergamaschi, tra i quali molti imprenditori e politici. C’è Emilio Zanetti, presidente di Bpu e Sesaab, c’è Guglielmo Alessio, presidente della Cdo di Bergamo; ci sono Rossano Breno, vicesegretario provinciale di Forza Italia, l’assessore della Provincia Bruno Rizzi, il consigliere regionale Marcello Raimondi, Marcello Moro, presidente della Commissione bilancio del Comune, Gian Luca Begnini, imprenditore.

Nei discorsi aleggia la mezza crisi del sistema-Italia, la Fiat al palo, si parla di Colaninno salito in sella alla Piaggio proprio ora che tramonta la scooter-mania, della forza dell’euro. A Radici piace il titolo del Meeting, dice che vuole «attenersi al tema», che vuol capire che diavolo c’entra con quello che ha fatto la sua famiglia, dalle coperte in spalla alle macchine tessili vendute in Cina. «Nel nostro lavoro è facile parlare di numeri e statistiche, ma, mi chiedo, cosa c’entra questo con la ricerca della felicità? E ci aggiungo anche la considerazione che il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, ha fatto qualche mese fa a proposito del bello: sono temi essenziali per chiunque, tutta la vita è una tensione continua nel cercare di soddisfare questi bisogni che ognuno sente nell’animo».

Il problema di chi fa impresa - dice Radici - è capire cosa significa oggi "made in Italy": «È un’etichetta che deve voler dire qualità, ma anche qualcosa di più: stile, gusto, bellezza. Nei nostri prodotti si devono respirare le grandi bellezze del nostro paese, che fanno parte ormai della nostra cultura; si deve sentire la dolcezza della musica di Puccini piuttosto che la forza prorompente di quella di Verdi. Nel Rinascimento c’erano corporazioni delle arti bravissime nel produrre tessuti di grande raffinatezza: si nutrivano di ciò che vedevano nell’opera di Leonardo, di Michelangelo, di Cellini, e riuscivano a trasmetterla nei loro prodotti, che tutto il mondo di allora invidiava. Noi italiani, se vogliamo continuare a competere nel mercato globale, dobbiamo dare un valore aggiunto ai nostri prodotti».

Radici cita Tancredi Bianchi, «un maestro»: «Lui dice sempre ai giovani: "Dovete avere i piedi nel borgo, e la testa nel mondo"». E in mezzo a gente che ha già il cervello abbondantemente globalizzato, l’imprenditore bergamasco preferisce parlare delle sue estremità inferiori: «Noi siamo originari di un verde paesino racchiuso in una piccola valle bergamasca. La mia famiglia era molto umile. Quando i primi due, cinquant’anni fa, hanno iniziato questo mestiere, facevano in realtà gli ambulanti: amavano le loro montagne con tutto il cuore, però volevano anche andare oltre. Allora comprarono un carro e due cavalli, li riempirono di prodotti della Val Gandino e cominciarono ad andare in giro per il nord Italia. Poi riuscirono ad arrivare fino in Sicilia. Vedete, in questa "fiera" che è il Meeting passano, mi dicono, cinque o seicentomila persone. Loro credo che non avrebbero perso un’opportunità del genere!».

Racconta di quando negli anni ’50 suo fratello Gianni creò la prima azienda del Gruppo Radici, e di quando entrò lui, all’inizio degli anni ’60. «Allora con i nostri dipendenti vivevamo fianco a fianco, si lottava, si soffriva, si faticava tutti assieme. Ma quando ottenevi una vittoria aveva un sapore particolare, compiuto, che certamente l’imprenditore che resta chiuso oggi nella "stanza dei bottoni" non avrà mai la possibilità di gustare».

Sfida e passione nell’azienda

Oggi c’è la globalizzazione però, è diverso. Molto diverso? Per Miro Radici no: «Come i miei genitori si spinsero fino in Sicilia per trovare nuovi mercati, noi siamo sbarcati in questi anni nei paesi lontani. La sfida è difficile, d’accordo, ma lo dice San Paolo mi pare: "La vita è una gara"».

Osserva il pubblico, Radici, ci sono tanti ragazzi, gente che andrà pure allo stadio... «Beh, allora bisogna cercare di vincerla. È inutile fare i falsi moralisti». Chiude con John Nash, matematico premio Nobel: «Nel discorso a Stoccolma disse: ho lavorato tutti questi anni studiando i numeri, la logica, la ragione. Ma alla fine ho capito che la ragione che conta di più è quella dell’amore». C’entra con l’impresa, dice Radici. C’entra anche con la domanda del Meeting: «Se sviluppiamo le nostre aziende con amore, con passione, credo che lì ci sia la felicità».

Carlo Dignola

Su L’Eco di Bergamo del 27 agosto 2003

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