«Tagli alla Sorveglianza»
Andrea Resti parte da qui

Un candidato in prestito dal mestiere di professore alla Bocconi. Andrea Resti, che è stato anche consulente per grandi gruppi bancari (Ubi compresa), guida la terza lista nella corsa al rinnovo dei vertici Ubi, che si è infilata tra la lista ufficiale di Andrea Moltrasio e quella di Giorgio Jannone.

Professore, la prima accusa mossa alla sua lista è l'improvvisazione. In effetti fino a pochi giorni prima si parlava del rettore Stefano Paleari come capolista. Quando è maturata la sua candidatura?
«So che da tempo c'era una rosa di nomi fra cui per vari motivi hanno scelto il mio. Me l'hanno chiesto alcune settimane fa».

Sostenete di presentare 18 nomi per dare un segnale di austerità sui costi di governance. Ma non è un segno di debolezza proporre meno dei 23 candidati possibili?
«No. Ci sono persone preparate che hanno fatto un passo indietro per stare nei 18 nomi. È un primo segnale. Ci vuole una riduzione più incisiva del consiglio di sorveglianza. Un consiglio dimezzato costerebbe la metà e deciderebbe meglio».

Avete raccolto 700 firme: chi vi sostiene?
«Un tessuto articolato di persone. In parte riconducibili alla piccola imprenditoria che vorrebbe un appoggio alla crescita più convinto e continuo. In parte credo che anche ex dipendenti o dipendenti avvertano la necessità di uno scatto d'orgoglio che resusciti le migliori tradizioni delle banche locali che hanno dato origine a Ubi. E credo che anche da parte delle famiglie ci sia qualche insoddisfazione».

Dite di essere gli unici che garantiscono il mantenimento della forma cooperativa, ma dite anche di essere «laici» e che «non si possono chiedere alla gente professioni di fede in bianco». Quindi? Cooperativa sì o no?
«Cooperativa sì sì sì. Però attenzione. Non cooperativa sì perché è bello e ce lo insegna qualcuno dall'alto di un piedistallo. Bisogna essere "laici", poi se qualcuno vuole essere integralista faccia pure, perché o assicuri un meccanismo che crea sviluppo, benessere, buona occupazione o la tentazione di abbattere l'albero per farne legna, e poi l'albero non l'hai più, è una tentazione umana e dovremo farci i conti».

Sul modello federale lei si chiede se servono 9 banche rete e «laicamente» risponde no. Pensa alla banca unica?
«No. Penso che il modello della banca federale con autonomie societarie sia potenzialmente vitale e positivo. Quello che non voglio è la sua riproposizione dogmatica. Ci possono essere realtà per le quali il modello federale va potenziato come Iw Bank, una banca virtuale che fa dell'eccellenza tecnologica la sua arma competitiva».

Ubi è fra le poche grandi banche in utile e che dà un dividendo. Come giudica i risultati economici del gruppo?
«Il mercato e gli analisti li hanno giudicati male. C'è la qualità degli utili da guardare. L'utile netto di un'ottantina di milioni è reso possibile integralmente da circa 260 milioni di utili sul portafoglio finanziario cioè da una fonte non ripetibile».

I prestiti sono diminuiti anche per i vincoli sul patrimonio imposti dall'Eba, di cui lei è consigliere come membro del comitato consultivo. Come giudica la politica europea sulle banche?
«È zoppa. Manca la volontà politica di stringere fino in fondo i bulloni e ogni volta che i mercati respirano i politici europei si dimenticano del problema. In questo contesto, che non mi piace, l'Eba è stata lasciata da sola a tamponare la falla con un solo strumento: un supplemento di patrimonio per rassicurare i mercati».

Dite che «Ubi deve produrre dividendi per le famiglie». Ma come la mette con i vincoli di bilancio e i limiti posti da Bankitalia? Non rischia di essere demagogia?
«No. Non è una promessa per domani mattina. È un obiettivo rispetto al quale occorre fare uno sforzo straordinario e lo fai motivando le strutture e recuperando un'identità comunitaria che è andata perduta. Partiamo per esempio con un forte taglio degli emolumenti al top management o delle consulenze. Vogliamo introdurre un elastico fra la retribuzione dell'ultimo giovane assunto e quella dei manager, un meccanismo che garantisca che o si cresce tutti o si fa un passo indietro tutti?».

Siete stati accusati di provincialismo. Ritiene che nella sua lista ci siano professionalità ed esperienze necessarie per gestire una grande banca tradizionale inserita in un contesto di finanza globale?
«Sì e se non lo credessi avrei cambiato composizione. È una lista pensata per garantire un radicamento sul territorio, un collegamento con altre realtà cooperative. Ci sono imprenditori di successo ma non ingombranti in termini di fabbisogno di credito. Ci sono esperti. E mi consenta: io sono un provinciale. I provinciali sono semplici e concreti, non hanno paura della fatica ma delle scorciatoie come i derivati e la cattiva finanza». 

Sui patti fra Bergamo e Brescia parlate di «medievali alternanze». Ma gli accordi si rispettano o no?

«Gli accordi si guardano e si valutano alla luce delle circostanze correnti senza pregiudizi. Chiedere se servono 23 consiglieri di sorveglianza non mi sembra venir meno alla parola data, fra l'altro dall'attuale management. Forse anche per questo un nuovo management potrebbe valutare, senza traumi né scorrettezze, la possibilità di rendere più efficienti gli assetti di governo».

Fino al 2006 è stato amministratore di Banca 24/7, diretta da Giuseppe Masnaga fino al 2005. Si aspettava l'epilogo di questi giorni con il cambio di direzione alla Popolare di Bergamo?
«Credo che nessuno si aspettasse uno sviluppo del genere».

Lei ha detto: «Se posso dare una mano, volentieri. Ma il mio mestiere è un altro». Considera il suo impegno a termine?
«Sì, con tutto il cuore. Credo di avere le competenze tecniche perché non sono un topo di biblioteca. Se poi mi chiede cosa voglio fare fra tre anni, le dico ricerca, stare con i miei studenti e i miei bambini».

Promettere «a tutti i soci il miglior futuro per Ubi e per tutti voi» suona come una promessa elettorale. Non è pericoloso far entrare stili propri della politica nella competizione per gestire una delle più grandi banche del Paese?
«Quando si comunica con un volantino si fa anche uno sforzo di sintesi. Cosa vogliamo dire: per esempio, che liberando la banca da condizionamenti e centri di potere si può garantire a dipendenti e clienti un futuro migliore in una fase non facile».

Cosa prevede per il 20 aprile e se dovesse trovarsi in minoranza quale linea adotterebbe? Collaborazione o muro contro muro?
«Deve chiederlo a chi ha 18 voti, non a chi ne ha 5».

Dà per scontato di prendere 5 consiglieri?
«Be', già lei ha fatto l'ipotesi più sfavorevole... Spero che tutti i soci siano informati, possano valutare e decidere. Spero che ci sia un confronto pubblico fra i candidati. Se saremo in minoranza, dipenderà da quello che farà la maggioranza: o si stabilisce che su ogni decisione si creano maggioranze variabili oppure la minoranza può esercitare solo un ruolo di controllo che non vuole dire di disturbo».

Silvana Galizzi

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