L'intervista a Emilio Zanetti
«La mia vita per la banca»

«È bene che si faccia». Emilio Zanetti non ama le molte parole e in ogni situazione gliene bastano cinque per dipingere uno scenario, per mettere il punto esclamativo a un'idea. Leggi l'intervista del direttore Giorgio Gandola.

«È bene che si faccia». Emilio Zanetti non ama le molte parole e in ogni situazione gliene bastano cinque per dipingere uno scenario, per mettere il punto esclamativo a un'idea. C'è un investimento da decidere? C'è un uditorio da convincere in un passaggio delicato? Lui prende la parola dopo tutti gli altri e quasi sussurra: «È bene che si faccia». Qualche volta l'abbiamo visto all'opera. Quel bene non è mai un vezzo, raramente è motivato solo dal puro business (anche se per un banchiere è del tutto normale fare gli interessi degli azionisti), ma dà l'idea di essere un bene diverso. Un bene che per 28 anni è arrivato dal basso, il bene del territorio e di quell'anima popolare che sta dentro il nome stesso della banca. «Con i piedi nel borgo e la testa nel mondo», recita il titolo del libro che racconta la saga ultracentenaria della Popolare. Bergamo è cresciuta anche grazie a lui. E ha imparato a guardare negli occhi Milano con lui. L'aeroporto, l'università, decenni di sviluppo per ogni azienda che avesse un'idea vincente e il coraggio di sfidare i marosi del mercato. In Lombardia ci sono città come Como e Varese che perdendo la banca del territorio hanno messo a rischio l'anima e oggi sono economicamente sfibrate. Bergamo - grazie a Popolare e Credito Bergamasco - di banche ne ha sempre due. «È bene che si faccia». Poi è arrivata la stagione delle fusioni e della realizzazione di Ubi, il terzo gruppo bancario italiano.

Adesso il cielo è nuvoloso, sei anni difficili, vissuti fra indicatori avari come su tutto il pianeta della finanza, ma con la tenacia di chi ha un mandato da rispettare e 87.000 soci da difendere. Oggi, a 82 anni, Emilio Zanetti uscirà dall'assemblea per entrare nella storia.
Con quali parole e quali pensieri nel momento del saluto finale?
«Parole poche, anche le grandi avventure hanno un inizio e una fine. Pensieri uno, il primo, rivolto a mio papà. Avevo 24 anni quando è mancato improvvisamente. I suoi insegnamenti li ho scolpiti nella memoria. Un giorno mi disse: "Ti iscrivi all'università, ma vieni anche a lavorare in azienda". Mi fece trovare una lettera nella quale c'erano molti precetti. Uno su tutti: "Devi essere un galantuomo". Ho cercato di seguirlo per tutta la vita e credo di esserci riuscito».
Suo papà Guido fu presidente della banca in un periodo storico molto delicato.
«Lo diventò nel 1933, poco dopo la crisi del '29. Ho letto libri di quegli anni, anche a Bergamo c'erano stati fallimenti di banche, ritiro dei depositi, crisi degli impieghi. Le similitudini con l'oggi non mancavano. Nelle pieghe del passato ho trovato un suo discorso nel momento più duro: "Con rincrescimento, ma dobbiamo contenere i costi". È quello che stiamo facendo anche noi nell'attesa che la tempesta si attenui».
Di esperienza per dirci se e quando passerà, ne ha a sufficienza.
«Guardi, sono del 1931 e ho vissuto la giovinezza nell'immediato dopoguerra. Allora si percepiva in tutti una grande voglia di ripresa e per realizzarla c'era un impegno collettivo, un formidabile senso di solidarietà. Si partiva da condizioni di disagio quando non di disperazione, ma con la ferma volontà di migliorare, di progredire. Oggi quel clima non esiste più, è cambiato. Oltre la crisi vedo meno solidarietà, più individualismo. E questo non aiuta la società a rialzarsi».
Eppure non è la prima crisi di sistema, in fondo dovrebbe sempre esserci una svolta.
«Ne abbiamo attraversate altre, choc petroliferi, fibrillazioni della lira, ma la durata era sempre stata limitata. Questa dura da sei anni, dal fallimento Lehman Brothers. Due crisi successive, la prima per la bolla immobiliare e poi quella dei debiti sovrani. La sfiducia ha paralizzato il mercato interbancario. Credo che passerà».
Qual è il problema più grave percepito dal suo osservatorio?
«Quello occupazionale. Noi abbiamo accompagnato l'esodo del personale senza un giorno di sciopero e abbiamo stabilizzato giovani che avevano contratti a tempo determinato. La certezza del lavoro dei giovani è la prima condizione perché possano programmare il futuro, pensare a una famiglia. Lì bisogna impegnarsi molto, tutti».
C'è fame di credito. E le banche, tutte le banche, non sembrano fare abbastanza.
«Oggi le aziende hanno meno ordini, programmano meno investimenti, c'è meno richiesta di credito da parte di coloro che meritano di essere sostenuti. Nel 2012 abbiamo dovuto spesare 847 milioni di perdite su crediti concessi. E siamo la migliore banca in Italia».
Alberto Bombassei ci ha raccontato come si diventa Brembo grazie anche alla Popolare. Sono cose di spessore.
«È il mestiere del banchiere, credere in un'azienda anche piccola, ma con un'idea vincente. Esaminare i programmi e dare i supporti, facile a parole ma difficile nel concreto. Spesso mi sono trovato a riflettere, davanti a una scelta difficile, cosa avrebbe fatto al mio posto Lorenzo Suardi che fu presidente dal 1955 al 1985 o il direttore Giacomo Bertacchi, alpino, ragazzo del '99. È stata una bella avventura, sempre supportata da consigli d'amministrazione di alto profilo e da persone di valore. Emilio Mazzoleni, Antonio Parimbelli, l'avvocato Calvi».
Però nella vita, appunto, c'è sempre un inizio e una fine. E la fine arriva in un momento molto difficile.
«Lascio l'incarico con animo sereno e la consapevolezza di avere sempre cercato di fare il mio dovere. Nella gestione di una banca sono importanti quattro qualità: il patrimonio, il personale, l'organizzazione e la comprensione del contesto. Quest'ultimo è il punto chiave: forse tutti, in questi anni, abbiamo sottovalutato la velocità dello sviluppo dei Paesi emergenti. Pensavamo che l'Europa sarebbe rimasta leader in tutto, dalla tecnologia alla capacità di visione e di organizzazione. E invece dobbiamo batterci con realtà dalla crescita esponenziale. Anche questo è un fattore».
Cosa auspica stamane per la banca e per la città?
«Era evidente che si ponesse un problema di ricambio generazionale, ma sono convinto che tutte le persone nella lista ufficiale siano perbene, di grandi capacità e professionalità. Mi auguro che il dibattito sia molto civile. A parte i toni di certe polemiche, credo che tutti debbano perseguire gli interessi della banca, quindi formulare programmi non sulla contrapposizione ma sugli obiettivi. In occasione del 140° della Banca Popolare di Bergamo il professor Tancredi Bianchi disse: "Questa è una storia di uomini che hanno anteposto l'interesse della banca a qualsiasi interesse personale". Questo è il principio a cui tutti dovranno tenere fede, come noi abbiamo fatto».
L'anima popolare nel mondo globale è un valore o una zavorra?
«È il valore maiuscolo, è espressione di democrazia economica, di grande modernità. Nell'ultima operazione di fusione con Banca Lombarda e Piemontese abbiamo convinto i possessori di azioni di una spa a cogliere il principio di democrazia economica e a trasformarsi in popolare. Ma la democrazia economica non va intesa come indicato in certi volantini che ho visto girare ultimamente in città con l'invito a comprare 250 azioni per poi venderne 249 per avere egualmente diritti e votare. Al contrario significa far crescere un legame con la banca, con la quale si ha un rapporto speciale socio-cliente. Sappia che dei primi cinque gruppi bancari italiani, due sono popolari e la forma giuridica non ne ha mai ostacolato lo sviluppo. Le banche popolari erano un centinaio nel '93, oggi sono 37, ma le quote di mercato sono passate dal 10 al 25 per cento».
Le fusioni, a Bergamo, hanno fatto e continuano a far discutere.
«Lo so, ci sono critiche sulle ultime due operazioni. Ma Comindustria ci ha aperto importanti quote di mercato a Milano e Varese, e la fusione con Banca Lombarda è stata un accordo importante. La sede legale è a Bergamo, è un esempio vincente di democrazia economica e si è evitato che Banca Lombarda venisse acquisita da un istituto straniero. Gli spagnoli erano molto interessati, i risparmi di un sistema territoriale omogeneo avrebbero corso il rischio di essere utilizzati per investimenti all'estero. E sarebbe entrato un concorrente con regole non identiche alle nostre. Abbiamo mantenuto qui una banca, è stato un esempio positivo per l'Italia. Il tempo è galantuomo e anche i critici capiranno: quella scelta sarà valorizzata».
Presidente, l'ultimo suo intervento è stato un videomessaggio. Modernità alternativa, ha sorpreso tutti.
«Nei contenuti voleva essere un invito alla concordia, alla conciliazione, con un comportamento da parte di tutti finalizzato a evitare contrapposizioni. Sulla tecnologia adottata cosa le devo aggiungere: mi dicevano che dovevo adeguarmi ai nuovi media. Detto fatto».
È stato il momento più difficile, quello dell'uscita di scena del direttore generale Giuseppe Masnaga.
«Il rapporto si è concluso con un accordo consensuale. Ci sono momenti nei quali si prende con dispiacere una decisione, ma quando viene meno un rapporto fiduciario bisogna trovare una soluzione». Anche quest'anno la banca ha dato un dividendo agli azionisti: cinque centesimi. Che significato ha? «È dall'Ottocento che la banca dà comunque un dividendo. Lo fece anche durante la crisi del '29. Ci sono gesti simbolici che hanno un significato: anche nei momenti di difficoltà, noi ci siamo».
Quale filosofia pensa di tramandare a chi le succederà?
«Avere i piedi a Bergamo e la testa nel mondo. Piccoli per ascoltare tutti, ma grandi per dare risposte a imprenditori sempre più internazionalizzati. Bravissimi imprenditori bergamaschi che hanno saputo ristrutturare e, pur con aziende ridimensionate, cercare e trovare nuovi mercati. Hanno messo in valigia il coraggio e i campionari e sono partiti. A loro vogliamo poter dare sempre il nostro sostegno».
In molti dicono: bisogna dare una scossa a Bergamo.
«Lo sento ripetere anche troppo. Credo che Bergamo abbia grandi risorse, abbia fatto e continui a fare cose importanti. L'università, anche con il nostro sostegno, è diventata un polo d'eccellenza nazionale. L'aeroporto è il terzo d'Italia. Abbiamo un ospedale fra i migliori per tecnologia ed eccellenze mediche. Senza tenere conto che in questi anni le amministrazioni devono fare i conti con vincoli come il patto di stabilità che non consentono di realizzare nuove iniziative. Ma una banca come la nostra non ha solo l'impegno di sostenere l'economia».
Cosa dovrebbe anche fare?
«Continuare ad essere un punto di riferimento per tutta la società. Destinare una quota di utili netti a iniziative sociali, culturali, benefiche. Sostenere ed essere motore di sviluppo in tutti i settori. E nel segno della continuità, saprà farlo».
I tre pilastri della Bergamo più popolare: la diocesi, esempio dell'eccezionalità sociale del cattolicesimo lombardo. La banca popolare, quella dell'azionista-cliente, del libretto aperto dal nonno ad ogni nipote. E l'Atalanta. Sarà sempre così?
«Sono convinto di sì perché la gente bergamasca è legata a queste istituzioni. È cresciuta con loro e si riconosce in loro. Ne aggiunga una quarta: L'Eco».
Qual è il ricordo più prezioso che porterà con sé all'uscita?
«In 28 anni di presidenza non ho mai subìto un condizionamento né da parte politica, né da altre organizzazioni. Ho sempre difeso l'autonomia della banca, ho sempre tenuto fede ai miei e ai suoi principi. Coincidevano. Ma anche questo insegnamento arriva da lontano».
Da dove, ce lo spiega?
«Ero il nono di dieci figli, eravamo tre maschi. Durante la seconda guerra mondiale mio fratello Attilio era in Montenegro e l'8 settembre, quando gli ufficiali scapparono, lui si diresse verso le bocche di Cattaro per cercare di mettere in salvo i soldati che gli erano stati affidati. Furono circondati dai tedeschi. Cinque di essi, e fra questi Attilio, furono fucilati a Trubiela. Partendo da questo insegnamento, per me è sempre stato importante riaffermare il legame con la patria, con il territorio, con la comunità».
Una comunità costituita anche dalle migliaia di dipendenti della Popolare di Bergamo. Cosa vorrebbe dire loro?
«A loro esprimo un apprezzamento particolare, sono punte di eccellenza orgogliose di appartenere a questa banca. E spero che i miei successori perseguano obiettivi non a breve termine, ma a lungo termine per far progredire la Popolare in modo costante. Questa potrà essere la fortuna per la nostra città, per la nostra provincia, per il nostro Paese. E questa sarà sempre la casa dei bergamaschi».
Lunedì mattina cosa farà?
«Da parecchi anni alle 7,30 ero in banca, anche perché prima non arriva nessuno. Mi trovavo con Massiah, si cominciava la giornata insieme. Andrò in azienda a parlare con i miei figli e i collaboratori. Ma prima desidero concretizzare un altro piccolo progetto: voglio andare in un monastero un paio di giorni a riflettere. Non sulla banca, basta. Sul fine ultimo della vita. Alla mia età bisogna cominciare a farlo».

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