Adesso è Renzi
che rischia grosso

Matteo Renzi ha provato a buttar giù dalla torre Giuseppe Conte ma non c’è riuscito: per poco, ma il governo è ancora in piedi. Ieri sera il Senato, al termine di una seduta lunghissima, con un dibattito per molti aspetti modesto se non miserabile, ha concesso la fiducia all’esecutivo che però non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei voti (pari a 161, ma non era richiesta formalmente) fermandosi a quota 156, un po’ più di quanto si temeva nel pomeriggio e un po’ meno delle speranze di palazzo Chigi. Dunque Conte resta in sella ma è indebolito, molto indebolito, e chissà quanto resisterà. Peraltro non si capisce per quale ragione Renzi, che ieri ha tenuto un discorso durissimo contro l’inefficienza del governo e del suo presidente, alla fine si sia risolto a far astenere i suoi 17 senatori, sottraendo così al «fronte del no» un pugno di voti che forse avrebbe segnato la vittoria delle opposizioni.

Si dice che l’abbia fatto perché altrimenti il suo gruppo si sarebbe sbriciolato facendo esplodere le non poche obiezioni che la linea renziana ha provocato tra i suoi parlamentari. Astenendosi, il gruppo è riuscito invece a rimanere compatto con la sola defezione di Tommaso Cerno (una delle candidature più bizzarre di Renzi quando era segretario del Pd) che, ingrato, ha abbandonato il suo mentore ed è tornato sotto il mantello di Nicola Zingaretti.

In ogni caso, l’offensiva renziana, anche per questa incoerenza finale, non essendo riuscita, rischia di inghiottire il senatore fiorentino nel limbo dell’ininfluenza. La speranza sua e dell’opposizione è che Conte, così azzoppato, abbia vita breve se non brevissima. Di fatto a Conte non è riuscito l’arruolamento dei centristi, ex democristiani, liberali, socialisti e moderati vari, intorno ad un gruppo parlamentare che poteva costituire la terza gamba della coalizione. No, i centristi si sono tirati indietro – con qualche clamorosa eccezione come Renata Polverini e l’ex assistente di Berlusconi Maria Rosaria Rossi – e dunque la maggioranza in Senato ha resistito solo grazie ad una truppa raccogliticcia di naufraghi, dispersi, emarginati, anime perse in cerca di una ricandidatura. In queste condizioni il governo non potrà essere certo neanche di avere i numeri sufficienti nelle commissioni parlamentari, quantomeno del Senato, dove i suoi provvedimenti saranno preda del centrodestra. Senza contare le contraddizioni politiche che questa operazione semi-disperata di Conte innesca: come potrà la sinistra grillina sopportare di stare dalla stessa parte di una ex missina come la Polverini o di una iper berlusconiana come la Rossi? E come potranno i pentastellati rispondere a quanti ricordano la condanna grillina per chi in passato cambiasse casacca mentre adesso i voltagabbana sono stati cercati, coccolati, vezzeggiati a forza di promesse?

Nello stesso tempo tutti i distinguo del Pd restano in piedi: difficile che Zingaretti rinunci a porre di nuovo la questione dei soldi del Mes. Il segretario del Pd ha tuttavia avuto varie soddisfazioni, innanzitutto la promessa di Conte di un ampio rimpasto che seguirà questa tormentata vicenda, poi la cessione da parte di Palazzo Chigi del controllo sui servizi di sicurezza e infine la legge elettorale proporzionale.

In queste condizioni, a metà febbraio il governo dovrà presentare a Bruxelles un Recovery Plan coerente: dalla Commissione si moltiplicano gli ammonimenti e le richieste di presentare in fretta proposte sensate e accettabili. Riuscirà il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a trovare il giusto compromesso tra i partiti, le lobby, l’Europa e metterlo definitivamente nero su bianco?

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