Afghanistan, tragedia
di un paese indomabile

Solo un inizio d’anno così terribile, con attentati a ripetizione, centinaia di morti e la capitale Kabul assediata dal terrore, poteva riportare l’attenzione sull’Afghanistan. Le Nazioni Unite, le Ong, persino i pochi religiosi presenti sul campo lanciavano da tempo l’allarme, pubblicavano dati sempre più agghiaccianti sui civili uccisi da atti di violenza e avvertivano che la situazione si era fatta insostenibile. Avevano ragione, ovviamente, ma il loro impegno non è servito, tanto a fondo abbiamo rimosso il «problema Afghanistan» dalla nostra coscienza collettiva. Non c’è da stupirsi.

L’Afghanistan, attaccato nel 2001 per vendicare le Torri Gemelle e sradicare Al Qaeda, e l’Iraq, invaso nel 2003 per abbattere il regime di Saddam Hussein, sono i figli diversi di una stessa illusione, i frutti avvelenati della stessa follia politica: il sogno di poter prendere un Paese, soggiogarlo e ricostruirlo il più possibile a nostra immagine e somiglianza. Con la democrazia, il Parlamento, la società civile, le donne liberate e tutti i riti e i miti dell’Occidente beneficato da un millennio di Habeas Corpus.

Sia a Kabul sia a Bagdad è finita come sappiamo. Da presupposti lontani tra loro (perché Al Qaeda era davvero responsabile delle stragi americane, le ultime di una lunga serie, ed era davvero insediata in Afghanistan, mentre Saddam non aveva armi di distruzione di massa né legami con Osama bin Laden), ci siamo ritrovati nella stessa trappola. In Afghanistan siamo sprofondati in una palude dove possiamo soltanto perdere. Se ce ne andiamo, abbandoniamo gli afghani alle forze peggiori, e sarebbe una sorte crudele. Chi scrive fu a Kabul nel 1996, con i talebani al comando, e porta il ricordo indelebile di una desolazione quasi indescrivibile. Ma se restiamo, attiriamo sugli afghani un tormento senza fine: noi chiusi nelle basi e piuttosto ben protetti, loro esposti ai colpi di terroristi che si sfogano sui civili non potendo davvero attaccare i contingenti militari.

Intorno a questo dilemma senza soluzione, tutti gli elementi che non furono presi in considerazione quando si pensò di poter mettere sotto tutela l’intero Paese. La natura impervia del terreno che da sempre favorisce la guerriglia e il terrorismo. La tenacia e la combattività degli afghani, sperimentata con orrore dai macedoni di Alessandro Magno, dagli inglesi della Compagnia delle Indie, dai russi dell’Armata Rossa. L’ambiguità di certe alleanze, per prime quelle con Pakistan e Arabia Saudita, che furono gli unici Paesi a riconoscere ufficialmente il regime dei talebani. L’inesorabile svantaggio di chi deve vincere, noi, nei confronti di quelli a cui basta non perdere, dai talebani ai trafficanti di ogni genere. E così eccoci qui, a non saper più che fare mentre intanto contiamo i morti. E non solo loro. Il Centro ricerche del Congresso Usa ha calcolato che le guerre in Afghanistan e in Iraq sono costate ai soli contribuenti americani circa 1.600 miliardi di dollari. Poi una economista dell’Università di Harvard, Linda Bilmes, ha rifatto i conti, aggiustato le cifre, inserito voci di spesa prima non previste, e ha portato la cifra da qualche parte tra i 4 e i 6 mila miliardi. Tenere un marine in Afghanistan per un anno, anche se non esce mai dalla base e non spara un colpo, costa 4 milioni di dollari. Quante cose si potevano fare con somme come queste? E perché i soldi per la guerra si trovano sempre? Se tirarsi indietro non è giusto e andare avanti non è possibile, che cosa possiamo fare adesso, 17 anni dopo aver occupato l’Afghanistan? La risposta è sempre quella: se i pesci sono imprendibili, prosciughiamo lo stagno. I talebani e l’Isis afghano non potrebbero sopravvivere senza finanziamenti. Soldi che, lo dimostra la storia, spesso partono da Paesi e da ambienti a noi politicamente vicini. È quello il vero campo di battaglia, in ogni caso il terreno indispensabile per costruire la vittoria. Se non siamo disposti a batterci lì, è di fatto inutile che ci battiamo altrove.

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