Apple, Europa senza
sovranità fiscale

Tra i tanti paradossi dei 13,5 miliardi che Apple dovrebbe restituire per eccesso di benefici fiscali, c’è il fatto che il vero destinatario di questa stangata non appare l’azienda Usa, ma il possibile beneficiario, e cioè l’Irlanda.

Che si ribella, non vuole il «regalo», e ricorrerà alla Corte europea per respingerlo. Quella che è in gioco, insomma, non è la solidità di Apple, che ha una capitalizzazione in Borsa di 570 miliardi e liquidità di cassa di 214. Pagare 13,5 miliardi, beninteso, non piace a nessuno, e infatti Tim Cook minaccia ritorsioni un po’ miopi verso il suo mercato più grande, ma insomma non scuote i conti, e poi forse quei soldi si possono dedurre in America, cosa che a sua volta non piace a Washington. Ma qui è in gioco nientemeno che il principio etico-politico su cui gli Stati, da sempre, si fondano: la sovranità fiscale. Sono passati 801 anni dalla «Magna Charta», e oggi si accetta che uno smartphone fabbricato in Paesi in cui costa pochi dollari, venga venduto a oltre 700 anche in quegli stessi Paesi, ma i normali contribuenti si arrabbiano se chi detiene il marchio paga in un Paese a scelta solo 50 dollari per ogni milione di utile realizzato (aliquota 0, 005%).

Insomma, l’Irlanda ha un po’ esagerato, nell’esercizio della sua sovranità fiscale, tant’è che ora le tasse sulle imprese, sono «salite» al 12,5%, con buona pace dei concorrenti europei che, come in Italia, le pagano 3,4 volte di più. Ha avuto in cambio il rilancio della sua economia boccheggiante ed è questo che teme di perdere, se accetta i 13,5 miliardi. Lo scambio tra tasse vicine allo zero e occupazione e benessere in crescita, le è molto convenuto. È quella che si chiama con eleganza attrattività territoriale. L’effetto di tasse così basse non è peraltro replicabile, non si illudano i maghi delle feste di partito. È solo la diseguaglianza tra un Paese e l’altro che fa emergere il vantaggio. Se allo stadio tutti si alzano per vedere meglio, alla fine tutti vedono come prima, e per di più restano in piedi. Ma il giochino lo fanno comunque in molti, tant’è che l’Ocse ha misurato in 240 miliardi di dollari i vantaggi del turismo fiscale. Se mai, bisogna organizzare una base imponibile comune per i Paesi Ue, come – proprio dopo il caso Apple – sembra voler finalmente fare la Commissione europea. È insomma l’Europa fiscale che oggi manca, da collegare all’Europa della concorrenza, temperata da socialità, come dice Marchionne sia pur solo nelle sue conferenze. Ma in Italia non va avanti la legge in materia, presentata due anni fa da Renzi e nonostante gli sforzi di un bravo ministro come Calenda, uno che ci crede. La Commissione di Bruxelles, con la stangata Apple, è diventata un campione mondiale di procedure antitrust, e sta bene. Ma allora perché tante contraddizioni, proprio in materia di protezionismi e dazi? Uno dei grandi temi della fase attuale, nella politica mondiale, quello del populismo, si alimenta di chiusure e di muri, non solo verso l’immigrazione. Li richiedono le opposizioni, specie le più agitate, da Podemos a Trump, ma poi le applicano i Governi sedicenti virtuosi. In fondo, quella irlandese è anch’essa una forma di protezionismo, sia pur al contrario. E per blandire questi nazionalismi fiscali, solo dal 1° gennaio di quest’anno, risulta che i Paesi del G20 abbiano introdotto ben 340 dazi in più. Ecco perché occorre una politica fiscale europea, spostando in alto la sovranità, perché quella dei singoli Paesi – Irlanda docet – non basta più.

Si torna insomma alla necessità di un vero unitario soggetto europeo, che tuteli la più grande economia del mondo, che altrimenti continua a farsi male da sola. Anzi, occorre un accordo più largo, rilanciando la trattativa sul libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico, il cosiddetto Ttip, oggi fermo per non fare un regalo elettorale a Trump. Ma se l’Occidente, terra della libertà, della concorrenza, del mercato non riesce a superare questo ostacolo, cosa possiamo attenderci dal resto del mondo globale?

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