Baby gang a Napoli
Non basta la condanna

«Ogni occasione è buona per far scoppiare la rissa e lo si capisce da come si scrutano gli uni con gli altri, come se la strada fosse un ring dove battersi. Picchiare e farlo davanti a tutti, come in un film, peggio che in “Gomorra”. Picchiano anche davanti alle forze dell’ordine, senza paura di essere presi perché nessuno può fermare la furia di trenta ragazzini, che agiscono come uno squadrone militare». È il racconto impressionante di un giornalista del Corriere del Mezzogiorno che sabato scorso ha passato la notte per le strade di Napoli per verificare con i propri occhi il fenomeno delle baby gang. In questo inizio di anno la città ha vissuto un’escalation di episodi di violenza gratuita, come in una gara insensata e per certi versi inspiegabile, un fenomeno che nessuno è in grado di tenere sotto controllo, nemmeno la criminalità.

Un grande conoscitore della realtà giovanile napoletana come Marco Rossi Doria (era stato anche sottosegretario all’Istruzione con il governo Monti) si è detto pure lui spiazzato. Ha spiegato in un’intervista al sito Vita.it «C’è stata prima una accumulazione di decine di episodi minori che non sono arrivati a questa gravità e quindi non sono noti ma hanno costituito un humus tale per cui, in zone molto marginali e in minoranze, scoppiano queste vampate di violenza. Ma dobbiamo avere l’onestà di dire che si tratta di una cosa nuova, che ancora non abbiamo compreso».

Se si guarda al retroterra sociale di questi ragazzini ci troviamo di fronte a storie tutte molto simili: vengono da famiglie non solo molto povere ma con figure materne e paterne deboli o inesistenti, genitori che non hanno prospettive di impiego né formazione, che abitano ai margini di quartieri e comunità già marginalizzate e visti come marginali da quelle stesse comunità. Come ha spiegato sempre Rossi Doria si tratta di famiglie e ragazzi che vivono ai margini dei margini, in situazioni dove non esistono più possibili figure adulte di riferimento, come poteva essere un nonno, un parroco, un volontario. Ma questi fattori di drammatica deprivazione sociale erano ben noti. Quel che è sfuggita dai radar di tutti gli osservatori e gli operatori è invece questa accelerazione di comportamenti selvaggi e violenti, che scattano in particolare all’interno delle dinamiche di gruppo. Gruppi che è difficile intercettare, perché sono frutti spesso di aggregazioni occasionali, che agiscono a freddo, senza piani preordinati.

Dalla loro hanno anche un’altra arma: la paura che disseminano e che lasciano impressa nell’immaginario delle persone. È un’arma che va disinnescata, anche con una narrazione che restituisca le dimensioni reali ad un fenomeno che comunque riguarda una piccola minoranza di ragazzi. Restituire le dimensioni reali non significa affatto minimizzare. La sfida infatti oggi è quella di mettere in campo delle contromisure, in un contesto in cui lo Stato è troppo latitante, e in cui chi opera, nella scuola e non solo, è lasciato tremendamente solo. Servono sanzioni certe, serve provare a fare un censimento delle piccole gang, per cercare di smantellarle individuando chi fa da leader. Ma poi serve un percorso di paziente ricucitura sociale, dotando ad esempio le scuole di task force con operatori sociali di strada, costruire nuovi luoghi di aggregazione giovanile, favorire la crescita di comunità educanti territoriali che mettano insieme tutti i soggetti. C’è anche una legge da poco approvata, ribattezzata «Resto al Sud», che ha stanziato fondi per dare chance ai giovani ed evitare l’emorragia di risorse umane verso il Nord o verso altri Paesi. Contro le baby gang indignazione e condanne non bastano. Per arginarle ci vuole solo il coraggio e la pazienza del fare.

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