Battaglia di Aleppo
Le stragi e il realismo

Mentre della liberazione (senza virgolette) di Mosul non si sa più nulla, della «liberazione» (con virgolette) di Aleppo si raccontano, a quanto pare, le fasi decisive. Lo dimostrano le decisioni strategiche prese sull’uno e sull’altro fronte della città siriana. I generali di Bashar al-Assad e i consiglieri militari russi hanno proposto, ai ribelli e ai jihadisti ancora asserragliati nei quartieri Est, la resa e un salvacondotto per raggiungere la provincia di Idlib. I miliziani superstiti, al contrario, si sono radunati sotto un’unica denominazione, Esercito di Aleppo, e un unico comando per organizzare l’ultima resistenza.

Russi e lealisti siriani cercano di affrettare la resa della parte di città che non controllano, ridurre le proprie perdite e sfuggire alla vergogna delle troppe vittime civili. I jihadisti, al contrario, cercano di approfittare ancora della relativa protezione offerta dalla presenza dei civili, al cui sacrificio sono poco sensibili. Gli uni hanno bombardato senza rispetto, gli altri hanno addirittura sparato sui civili in fuga: come tutte le guerre contemporanee, anche questa è combattuta sulla pelle della gente innocente e disarmata.

È quanto ci ricorda Papa Francesco quando parla dei «tantissimi volti sofferenti in Siria, in Iraq». La guerra non è un confronto di strategie, a questo punto nemmeno di forze militari. Oggi è strage di popolazioni. Da questo punto di vista il conflitto siriano è la piaga più crudele tra le tante (il Global peace index, elaborato negli Usa, ci dice che da dieci anni il mondo diventa, di anno in anno, più belligerante) aperte nella carne viva del pianeta. Il computo dei morti è incerto, varia secondo le fonti, ma è comunque agghiacciante: 400 mila caduti come minimo, con quasi metà della popolazione sfollata e milioni di siriani fuggiti all’estero.

L’aspettativa di vita, in Siria, è crollata da 70 a 55 anni. Il Paese è devastato in tutte le sue strutture vitali. Chi lo controllerà in futuro, dovrà fare i conti con una nazione politicamente frammentata, geograficamente dispersa e spiritualmente divisa da rancori che dureranno in eterno. La situazione sul campo, comprendendo in essa anche lo spirito dell’Isis, che da tempo si ritira ma non dà segno di volersi arrendere, non consente di dare per chiusa la vicenda. È comunque possibile, però, farsi qualche domanda. Nel 2011, quando la crisi siriana era solo agli inizi e, anzi, la si chiamava Primavera, si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso? Qualcosa che la incanalasse verso uno sbocco come quello di Giordania e Marocco, se non della Tunisia? In fondo i problemi non erano molto diversi: anche in Siria le proteste chiedevano meno corruzione e più democrazia, nulla di rivoluzionario.

Al netto dalle ipotesi non verificabili di complotto (c’è chi ritiene che la rivolta covasse e fosse programmata da tempo), possiamo forse dire due cose. La prima è che Bashar al-Assad troppo in fretta rinunciò a una gestione politica della contestazione, troppo in fretta si fece tentare dal pugno di ferro, perdendo un’occasione per innovare il Paese e insieme offrendo ai suoi nemici l’occasione perfetta per attaccarlo.

Ma non si può parlare della tragedia della Siria senza parlare anche dell’Occidente. Se Usa, Francia e Gran Bretagna si fossero lavati le mani delle faccende siriane, e non avessero di volta in volta aiutato molti gruppi ribelli o incitato i Paesi alleati (le monarchie del Golfo Persico e la Turchia) ad armare e sostenere i jihadisti, che cosa sarebbe successo? Assad avrebbe esercitato la repressione e, con ogni probabilità, la crisi sarebbe stata chiusa in pochi mesi. Sarebbe rimasto in sella quello che molti giudicano un brutale dittatore? Sì. Brutta storia, vero? Certo. Ma non più brutta di quelle che abbiamo visto svolgersi in Egitto (dove la critica ad Al Sisi, almeno da noi, è nata con l’assassinio del povero Giulio Regeni: prima tutti applaudivano il generale che aveva tolto il potere ai Fratelli Musulmani) o in Bahrein, dove persino Barack Obama lodò l’intervento militare saudita contro la locale Primavera.

In Siria ci sarebbero stati morti, ma non così tanti. Distruzioni, ma non così massicce. Esuli, ma non a milioni. Quale dei due scenari sarebbe convenuto ai siriani la cui sorte, per lo più a parole, commiseriamo? Questo solo per dire che il realismo, anche nella versione meno nobile che è la ricerca del meno peggio, in politica è una qualità, non un difetto. È quello che per anni ci hanno detto, ignorati quando non sbeffeggiati, i cristiani del Medio Oriente, che di regimi autoritari e relazioni con l’islam fanno esperienza da 14 secoli. Anche a proposito di Aleppo, quando ammonivano che la vittoria della «rivoluzione» sarebbe stata poi sfruttata dagli eredi di Al Qaeda, non dai ribelli moderati. Noi, vittime delle teorie sulla esportazione della democrazia che così gustosi frutti hanno prodotto in Iraq (2003) e in Libia (2011), abbiamo preferito tapparci le orecchie e giocare con le virgolette di cui si diceva all’inizio. Così, di fronte allo stesso nemico, alcuni saranno liberati e altri solo «liberati». Anche se tireranno tutti un sospiro di sollievo.

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