Brexit, braccio
di ferro pericoloso

Niente accordo, siamo inglesi. Il Parlamento di Westminster ha bocciato con un’ampia maggioranza (391 no a 242 sì) il nuovo piano presentato dal primo ministro Theresa May per Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione. L’ennesimo piano, forse l’ultimo. A questo punto, come annunciato dalla stessa premier, oggi si voterà per uno «strappo», senza alcun accordo con gli altri 27 Paesi membri. Il che significa che i sudditi di Sua Maestà se ne andrebbero «sic et simpliciter», privi di patti con l’Europa di Bruxelles.

«Simpliciter» si fa per dire, perché le complicazioni per questo Paese sarebbero davvero enormi. La Brexit, voluta da poco più della metà dei cittadini del Regno Unito, si è rivelata un pasticcio fantasmagorico fin da subito, anche perché i laburisti di Corbyn, dopo averla appoggiata strumentalmente, hanno utilizzato la questione per scalzare il governo in carica: una questione europea è divenuta un braccio di ferro di politica interna.

Il governo ha escluso il ricorso a un nuovo referendum e i parlamentari, come detto, torneranno a riunirsi comunque oggi a Westminster. L’ipotesi del «no deal», ovvero l’uscita senza accordi, sarebbe una catastrofe. Ma lo stesso Parlamento si è già espresso contro questa ipotesi ed è più probabile che i deputati decidano di non decidere, rinviando a una terza votazione (giovedì) con la quale chiederanno un rinvio del divorzio tra Londra e Bruxelles (ora fissato al 29 marzo). Spostare la Brexit più in là, trasformarla in un divorzio tardivo, è diventata una specialità inglese, come il tè delle cinque.

Di questo guazzabuglio sulle rive del Tamigi noi italiani abbiamo poco da ridere. Se passasse la «hard Brexit», tutte le merci in entrata e in uscita dai porti inglesi sarebbero sottoposte a ispezioni doganali. Oggi un camion che arriva alla frontiera di Dover impiega due minuti per passare: con la dogana ce ne vorrebbero almeno venti. Risultato: il controllo di ciascun carico da sdoganare porterebbe al collasso le dogane. Ma quello che accadrebbe ai nostri camionisti è il minimo.

Il nostro Paese ha tutto da perdere da un «no deal». L’Italia ha un saldo commerciale fortemente attivo con la Gran Bretagna: esportiamo più di quanto importiamo. In caso di «splendido isolamento» il Regno Unito tornerebbe a imporre i suoi dazi per favorire la sua economia. Un salto all’indietro di 70 anni. E i dazi andrebbero a colpire soprattutto le nostre esportazioni. Il nostro commercio si basa in buona parte su piccole e medie aziende, oltre il 90 per cento, troppo fragili per fare sistema e imporre i loro prezzi se non in modo competitivo: per non parlare delle aziende il cui unico mercato estero è quello britannico. Quest’ultimo sarebbero le prime a morire sul fronte dei dazi.

E i nostri emigrati? Un’uscita senza accordi farebbe venir meno gli impegni già presi sui diritti dei tre milioni di cittadini europei, fra i quali 700 mila italiani. Londra ha assicurato che proteggerà unilateralmente i loro diritti, ma il loro status tornerebbe incerto, sarebbero dei semiclandestini graziati per volere di Sua Maestà. Gli europei perderebbero il diritto di residenza permanente e non avrebbero più accesso automatico al sistema sanitario britannico. Alle frontiere ci sarebbero code per i controlli e potrebbe essere reintrodotto un sistema di visti. Potrebbero anche tornare in vigore le salatissime tariffe di roaming, abolite nella Ue, per le telefonate da e per la Gran Bretagna (anche se ormai con le app di internet, che scavalca ogni frontiera, si telefona gratis). Il governo di Theresa May ha tuttavia più volte assicurato che non intende «deportare» nessuno che sia già residente qui. Troppa grazia. Insomma, quel che sta succedendo in tempi di Brexit dovrebbe fare riflettere i sovranisti di casa nostra. Perché quando parliamo di sovranismo dobbiamo tener conto che c’è sempre uno Stato sovrano accanto al nostro Stato sovrano: non possiamo fare i furbi pensando di poter essere gli unici sovranisti del «bigoncio».

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