Bus in fiamme a Roma
Specchio del degrado

In una città come Roma, in perenne allerta terrorismo, un bus che va in fiamme - con scoppio a seguito - a poche decine di metri da Palazzo Chigi e da Montecitorio è una notizia. Immediatamente rilanciata sui social con immagini che testimoniavano quello che stava accedendo e i riflessi sulla zona circostante. Dietro la vicenda si sarebbero potuti celare scenari inquietanti. Tant’è che il ministro dell’Interno Marco Minniti, aveva ritenuto opportuno recarsi sul posto per sincerarsi personalmente delle cause dell’accaduto. In pochi minuti (per fortuna, sotto molti aspetti) mentre si diradava il fumo acre del mezzo pubblico incenerito, si diradavano anche le preoccupazioni per un possibile atto terroristico.

Non c’entrava la jihad, quanto piuttosto lo sfascio dell’Atac. Sfascio anche in senso materiale: sempre ieri in un quartiere periferico a sud della capitale (l’Infernetto: mai parola si dimostrava più appropriata) un’altra vettura andava allegramente a fuoco. Sul fenomeno i numeri, nella loro crudele e impietosa freddezza, forniscono una rappresentazione del problema: nel 2017 sono stati 22 i mezzi andati «spontaneamente» a fuoco; dal 1° gennaio 2018 a ieri siamo a quota 10. Quindi, la media annuale tende a crescere. L’Atac si difende come può - cioè male – annunciando «a breve una nuova gara per ammodernare i sistemi antincendio sui bus». Come programmare una campagna di vaccinazione dopo un’epidemia. Non ci si poteva pensare prima?

La situazione dell’Azienda di trasporto romana presenta un quadro a dir poco drammatico. Non soltanto sotto il profilo debitorio e gestionale, ma anche per quanto riguarda i mezzi che dovrebbero garantire il trasposto locale su strada. Il parco delle vetture è vetusto, tra i più vecchi d’Europa. Il bus andato in fiamme nel centro della città era in servizio dal 2003. A ciò si aggiunge - come lamentano le organizzazioni sindacali - una manutenzione insufficiente. Un groviglio di inefficienze e di incapacità manageriale che si mescola in modo inestricabile ad aspetti di corruzione e di malamministrazione. I conti in rosso, fanno il paio con l’assenteismo diffuso tra il personale; l’assenza di visione strategica si incrocia con l’incuria nei controlli sul personale interno e sulla diffusissima «evasione» dal pagamento del biglietto.

L’insieme di tutti questi fattori si traduce - per la gioia dei cittadini che vivono a Roma o che la frequentano quotidianamente - in un’odissea senza fine. Gli scandentissimi standard del trasporto locale a Roma in altri tempi li avremmo paragonati a quelli di una metropoli del Terzo mondo. Quella che - in altri tempi, appunto – sarebbe suonata come un’ingiuria, diventa oggi quasi un auspicio. Nei fatti, la situazione dell’Atac (così come quella dell’Ama) è lo specchio del profondo degrado della Capitale. Le responsabilità sono antiche, anche se non equamente distribuite. Ma non vi è dubbio che l’ultimo decennio di governo dell’Urbe è stato come una mannaia sul capo di un malato grave: il colpo di grazia.

I cittadini romani sono stremati e, al tempo stesso, tristemente rassegnati nei confronti delle difficoltà di vivere in condizioni accettabili. Non protestano quasi mai, avviliti da inefficienze vissute come una sorta di punizione biblica. Chi vive a Roma sembra aver introiettato l’idea che le disfunzioni dei servizi pubblici (in testa, di gran lunga, quelle del trasporto) sono ineluttabili. Imposte dal destino. Non a caso, gli unici a sembrare indenni da tanto disastro sono i turisti, che sciamano per le strade con aria incantata e con gli sguardi increduli. La ragione è semplice: la Città eterna ha il dono di poter offrire tante bellezze, uniche e ineguagliabili, di fronte alle quali cosa contano mai gli autobus strapieni o in fiamme?

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