Capitali stranieri
L’equivoco italiano

L’ Italia non presidia i suoi centri di eccellenza economica. Crede che il mercato si autoregoli da solo. In questi anni le grandi imprese italiane, quelle che in Francia chiamano campioni nazionali, sono passate alla concorrenza estera senza colpo ferire. Il caso di Telecom è emblematico, si chiama Italia ma il socio di riferimento con il 23,8% è il francese Bolloré. Una rete di comunicazione con il 44,7% della quota di mercato delle telecomunicazioni lasciata in mano straniera. Un’ipotesi inimmaginabile in Francia, in Germania, negli stessi Stati Uniti, patria della libertà economica. C’è dunque voluto l’attacco plateale di Vivendi a Mediaset e il rastrellamento del 20% delle azioni del gruppo di Cologno Monzese per rendere evidente che l’Italia vive un grande equivoco. Confonde la vendita di asset decisivi per il Paese con il libero mercato. Gli investimenti sono certo ben accetti quando vengono a creare ricchezza.

Se un settore produttivo è sguarnito e arriva un investitore estero il Paese ne guadagna in termini di competitività. Si amplia la concorrenza , si creano posti di lavoro, si aumenta il prodotto interno lordo. Può anche essere che aziende in difficoltà vengano rilevate da capitali stranieri e godano di un rilancio che altrimenti non si sarebbe ottenuto. Ma quando imprese che rappresentano il meglio dell’attività economica nazionale e svolgono un’azione aggregante per un intero comparto vedono trasferirsi i centri decisionali all’estero perché acquisite da stranieri, per il Paese è una perdita secca. Se Pirelli diventa cinese non è una buona notizia. Il messaggio è chiaro: se un simbolo del made in Italy nei pneumatici cambia casacca vuol dire che l’Italia non gliela fa a tenere l’argenteria di casa. A maggior ragione se in questione vi sono le reti di comunicazione telefonica e di immagine. Poniamo che Francia e Italia abbiano una controversia su temi di importanza vitale, per esempio il settore energetico, la difesa, la sicurezza... e le televisioni italiane siano in mano francesi per una metà circa del mercato. Può far piacere che una buona fetta dell’opinione pubblica italiana venga veicolata o fuorviata dalla tutela di interessi contrari a quelli nazionali? C’è voluta l’arroganza di un Vincent Bolloré per risvegliare l’attenzione su un problema centrale per la tutela dell’indipendenza economica del Paese Italia.

La campagna d’Italia dei francesi segue quattro direttrici : il settore delle telecomunicazioni, l’acquisizione di marchi affermati della moda e del cibo, dai gioielli di Bulgari a Parmalat, la grande distribuzione con i marchi Auchan, Carrefour, Leroy Merlin... in attesa di poter far un boccone della concorrenza italiana di Iper e Esselunga, e poi il settore bancario e assicurativo. La Banca nazionale del lavoro (Bnl) è passata al gruppo Bnp-Paribas, Cariparma al Crédit-Agricole mentre Vincent Bolloré, sempre lui, secondo azionista di Mediobanca con il 25,8% del patto dei soci influenza la politica dell’istituto. Non è forse un caso che il Ceo di Unicredit Jean Pierre Mustier e quello di Generali Philippe Donnet siano francesi. Mediobanca è azionista di rilievo in entrambi gli istituti. E si dà sempre il caso che Pioneer, cassaforte del risparmio gestito, passi alla francese Amundi mentre Francesco Caio amministratore delegato di Poste Italiane la voleva per il gruppo italiano. Nei piani alti della politica e non solo della finanza francesi non si esclude la fusione di Unicredit con la banca Société Générale e di Generali di Trieste con le assicurazioni Axa nei prossimi anni.

A quel punto i giochi sarebbero fatti. La Francia avrebbe una massa critica da far pesare con la Germania. A Roma pare se ne siano accorti.

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