Carcere a Provenzano
e condanna all’Italia

Giuseppe Russo, Beppe Montana, Antonino Cassarà, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Pio Latorre. L’elenco potrebbe continuare. Sono solo alcune delle vittime di Cosa Nostra per le quali i giudici hanno assegnato una ventina di ergastoli a Bernardo Provenzano, soprannominato «Binu u’ tratturi per la determinazione con cui falciava come spighe di grano la vita dei suoi nemici».

Questo per introdurre il protagonista scomparso di questa storia. La Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime carcerario 41 bis al boss mafioso dal 23 marzo 2016 fino alla morte, il 13 luglio dello stesso anno. Secondo i giudici della Corte europea i magistrati italiani avrebbero violato il suo diritto a «non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti». Anche in questo caso il vicepremier Salvini ne ha approfittato per attaccare la Corte, ovvero l’ennesimo «baraccone europeo».

Peccato che la Corte di Strasburgo non abbia nulla a che fare con l’Ue, essendo un organo giuridico indipendente fondato nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, al fine di assicurarne l’applicazione e il rispetto in tutto il Vecchio Continente.

Le sentenze si rispettano, ma si possono commentare e criticare, anche quelle che arrivano dalle Alte Corti. La prima cosa che colpisce è che i magistrati di Strasburgo affermano l’incompatibilità di un malato con il regime carcerario del 41 bis ma riconoscono che il prolungamento della detenzione non ha comunque leso i diritti dello stesso Provenzano. Il che andrebbe contro il principio della rieducazione della pena, che è un diritto di ogni condannato. Insomma la contestazione è sul merito del 41 bis. E qui l’organo di Strasburgo (che in verità aveva già giudicato legittimo il regime) non fa che inserirsi in un dibattito esistente anche in Italia dai tempi della sua istituzione.

Il cosiddetto 41 bis nasce con la legge Gozzini del 1986 (doveva essere applicata in casi gravi di rivolta nelle carceri in via del tutto temporanea) ma di fatto viene applicato all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio a carico di alcuni boss mafiosi per evitare collegamenti con gli uomini di Cosa nostra.

È un trattamento durissimo, a al punto che alcuni giuristi lo definiscono anticostituzionale. Il carcerato veniva sottoposto quasi sempre ad isolamento, comprese le due ore d’aria al giorno, poteva ricevere visite di avvocati o familiari una sola volta al mese (dietro un vetro).

Secondo i giudici, il ministero della Giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a essere curato fuori da quel tipo di carcere. Gli accertamenti medici avevano documentato il decadimento cognitivo e il progressivo peggioramento del quadro neurologico e fisico del padrino corleonese. Condizioni che richiedevano una assistenza adeguata e continuativa che poteva essere garantita in una struttura sanitaria di lungodegenza. Lo stesso caso di Totò Riina, che, in fin di vita, aveva chiesto di essere assegnato agli arresti domiciliari. Va detto però che il sistema carcerario assicura sistemi sanitari adeguati per i detenuti ammalati. Compresi Riina e Provenzano. È questa la grandezza di uno Stato di diritto.

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