Catalogna, la politica
finisce in farsa

Questa Europa, se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Su quale altro pianeta, infatti, una delle regioni più ricche e progredite del continente, la Catalogna, potrebbe inventarsi un ruolo da «nazione oppressa»? E in quale storia fantasy i leader di tale «nazione oppressa», lontani da tutto e da tutti e ora inseguiti dalla magistratura con imputazioni che prevedono condanne tra i 15 e i 30 anni di carcere, decidano non solo di scappare ma di chiedere asilo politico in Belgio?

Cioè, nel Paese più instabile d’Europa, laddove si rimase senza Governo per 194 giorni tra 2007 e 2008 e per 541 giorni tra 2010 e 2012, e proprio a causa delle beghe autonomiste tra il ricco Nord vallone e il più modesto Sud francofono? Non è uno spasso.

Lo diceva anche Marx, copiando da Engels: «Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti della storia si presentano due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa». In Europa abbiamo già avuto la tragedia, quella che ha accompagnato l’invenzione dello Stato del Kosovo. Con la Catalogna e questo pseudo esilio belga dei suoi dirigenti siamo chiaramente alla farsa. Che ha impresso il proprio tratto, peraltro, su tutta la vicenda, sull’uno e sull’altro lato della barricata. L’isolamento in cui è precipitata la causa catalana è impressionante: l’Unione europea si è schierata con Madrid, senza se e senza ma. Giusto o sbagliato che sia, dopo la Brexit non poteva succedere altro. Il resto del mondo, invece, sta ancora chiedendosi che cosa sia la Catalogna, dove sia e perché si agiti tanto. Quali calcoli aveva dunque fatto il signor Carles Puigdemont? In base a quali strategie ha buttato alle ortiche un’autonomia larga e preziosa, che molto ha giovato alla Catalogna, scegliendo per sé il cioccolato e le patatine fritte di cui il Belgio si fa vanto? E Mariano Rajoy, primo ministro del Governo centrale spagnolo, si sarà reso conto che aver lasciato incancrenire la questione catalana per poi disperderla con i lacrimogeni non ha fatto altro che nobilitare una causa che di nobile aveva solo la passione dei cittadini?

Certo, Puigdemont e i cinque ministri che lo hanno seguito possono contare sulla legislazione del Belgio, uno dei pochi Paesi in cui si può presentare ricorso contro un mandato d’arresto europeo e in cui i giudici possono entrare nel merito, discutendola, di una richiesta d’arresto in arrivo da un Paese straniero. Ma siamo ai mezzucci, la politica è finita. E ancora una volta, in questo mezzo disastro, l’Europa ha brillato per la sua assenza. I vertici Ue potevano lavorare per far sì che la crisi spagnola non arrivasse al muro contro muro tra Madrid e Barcellona, ridicolo e insidioso al tempo stesso, ma non si sono mossi.

Non meno penoso, peraltro, risulta il solito tradimento dei chierici, il continuo arretramento del libero pensiero in favore dei diversi conformismi, reazionari o progressisti che si considerino. Una delle indiscrezioni circolate su Puigdemont e i suoi riguarda un presunto incontro con i leader della Nuova alleanza fiamminga (Naf), il partito che, vincendo «da destra» le elezioni del 2010, aprì di fatto il biennio del Belgio senza Governo. La Naf fu definita «populista» da tutti, e come tale attaccata persino dal re dell’epoca, Alberto II, che nel 2013 ha abdicato a favore del figlio Filippo. Ma curiosamente, nell’Europa dei luoghi comuni che distribuisce l’infamante aggettivo «populista» a destra e a manca, gli unici a sfuggire alla nomea sono i dirigenti catalani, che invece hanno tutto per meritarla. Così è, se ci pare.

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