Genova, il ricordo
e i nodi irrisolti

Oggi la città di Genova si ferma. Simbolicamente. Doverosamente, per rendere omaggio alla memoria delle 43 vittime del disastro, ma anche per riflettere sulle cause del crollo e guardare avanti, offrendo risposte sia ai cittadini direttamente colpiti, sia a un Paese che vorrebbe vedere garantita la qualità delle infrastrutture. A un mese dal cedimento del ponte Morandi molti nodi restano irrisolti, nonostante molti facciano doverosamente il loro lavoro. La magistratura prosegue nelle indagini, che necessariamente devono essere accurate per evitare il boomerang della mancata individuazione e punizione dei responsabili.

Gli operatori (Vigili del fuoco, tecnici delle amministrazioni e degli altri soggetti incaricati) proseguono nella loro meritoria opera di messa in sicurezza, di ripristino di condizioni meno gravose per la popolazione. I cittadini di Genova danno prova di encomiabile generosità, solidarietà e compostezza. E di pazienza. Soprattutto nei riguardi di un ceto di governo che dà mostra di pericolosa inadeguatezza.

La politica – in testa le forze di governo alle quali spettano le scelte – mostra le consuete pecche. L’ondeggiamento degli uomini di governo sulla vicenda non preannuncia nulla di buono. A dispetto dei proclami, lo sbandierato «cambiamento» rispetto ai vituperati governi degli ultimi decenni non si vede. Al contrario, si avverte un clima di incertezza e un pressapochismo che i continui pronunciamenti – per lo più via twitter o facebook – mascherano a malapena. Il decreto approvato ieri pomeriggio ne è, in modo lampante, una prova. A 30 giorni dal crollo ancora non si decide chi debba essere il Commissario straordinario alla ricostruzione. Con buona pace della straordinarietà, che implicherebbe tempi rapidissimi nelle decisioni operative. Nel 1908 lo Stato impiegò molto meno tempo per avviare l’azione di ricostruzione dopo il devastante terremoto con il terribile corredo delle migliaia di morti e di disperati senza casa, cibo, vestiti.

Il presidente della Regione Liguria, Toti, aveva già fatto presente la sua contrarietà a una scelta che mettesse fuori gioco tanto lui, quanto il sindaco di Genova. L’opinione può essere considerata interessata e forse lo è. Ma su un punto Toti ha ragione: non ci si balocca su una nomina decisiva per l’azione di coordinamento (con adeguati poteri) di un insieme di scelte politico/amministrative di enorme portata. Invece siamo di fronte a una «melina» degna del calcio italiano degli anni Sessanta, con una squadra titolatissima e maestra nel far girare la palla incessantemente quasi senza che i giocatori si muovessero. Dietro questo spettacolo non propriamente commendevole si celano, ma non troppo, calcoli di partito, incertezze, inadeguatezza. E, per dirla con Cronin, «le stelle stanno a guardare».

La ricostruzione del ponte che attraversa la città è uno degli aspetti cruciali. Il ministro Toninelli – che si mostra molto perentorio proprio nei toni – esclude categoricamente che il compito possa essere affidato alla società Autostrade. Dichiarazione dalla quale emerge una pesante approssimazione, poiché – secondo le regole della concessione – l’onere della ricostruzione spetterebbe proprio alla società che gestisce il tratto crollato. La posizione del ministro tende a confondere gli aspetti del problema. Escludere a priori Autostrade, al di là dei problemi giuridici, sembra una scelta dettata unicamente dalla volontà di trovare un capro espiatorio da additare al «popolo». Una soluzione di corto respiro. Altra questione, invece, è quella della possibile revoca della concessione. Anche su questo terreno, in ogni caso, occorre muoversi con prudenza e calcolando accuratamente la prospettiva di un ritorno (diretto o indiretto) dello Stato nella gestione delle infrastrutture autostradali. Soluzione che non va esclusa, ma che non deve far perdere di vista che i compiti principali del potere pubblico sono quelli di regolare e di controllare.

Le risposte al dramma del ponte Morandi fanno emergere una tendenza inquietante. La politica sembra ridotta negli angusti territori degli annunci. Prevale chi mostra più muscoli, chi la spara più grossa, chi alza maggiormente la voce. Con un pericoloso corollario: la «gogna» mediatica per chi non è d’accordo. «Lo faremo» o «lo farò» sono di solito accompagnati dall’individuazione di un nemico, meglio se imprecisato o inerme.

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