Con Riina la mafia
divenne brutale

Se dovessimo raccontare in breve le storie delle vittime di Totò Riina non basterebbe questo giornale. Il «capo dei capi» era il più feroce di tutti: per quasi 50 anni ha insanguinato Palermo, la Sicilia e l’Italia scatenando sanguinarie guerre di mafia e portando lo scontro fin dentro le istituzioni. Non sorprende certo che la Chiesa abbia vietato funerali pubblici: per tanto tempo Totò Riina e i suoi degni compari mafiosi hanno rappresentato il male, ordinando centinaia di delitti, molti dei quali eseguendoli di persona con una violenza cieca e inaudita. La sua biografia è la storia della stagione più brutale della mafia, partita da un gruppo di picciotti rozzi e spietati di un paese alle porte di Palermo, Corleone, che hanno dato la scalata a Cosa Nostra con una violenza inusitata persino per la mafia dell’epoca e con l’inganno sistematico. È stato il pentito Tommaso Buscetta, il «boss dei due mondi» a raccontare a Giovanni Falcone per la prima volta dall’interno cos’era Cosa Nostra e cos’erano i corleonesi, subendo il massacro per rappresaglia di quasi tutti i suoi familiari. Riina non ha mai avuto nessuno scrupolo a ordinare omicidi: lo faceva lui stesso, durante le riunioni della Cupola, avvicinandosi alle spalle dei boss che non condividevano la sua linea e strozzandoli con le sue mani tozze da contadino.

L’uomo che ha 26 condanne all’ergastolo definitive e un numero imprecisato di assassinii ha scalato tutti i ranghi di Cosa Nostra in questo modo, scatenando due guerre di mafia che hanno lasciato nei marciapiedi di Palermo o facendo scomparire di lupara bianca centinaia di picciotti, fino a scalzare il potere di mammasantissima del calibro di Stefano Bontate e Tano Badalamenti.

C’è anche chi dice che con lui la mafia è finita proprio per effetto della sua brutalità cieca e sanguinaria che ha scatenato la reazione ferma e potente dello Stato, facendo emergere così la mafia da quegli abissi in cui era rimasta celata per secoli, forse dai tempi dei Beati Paoli.

Accanto alle guerre senza quartiere tra criminali ingaggiate dai corleonesi il «capo dei capi» ha portato l’attacco più inusitato e cieco alle istituzioni e alla società civile facendo uccidere magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine come il commissario Boris Giuliano, giornalisti, medici, sindacalisti, industriali, commercianti e naturalmente politici.

La prima toga a cadere fu Pietro Scaglione, tra i politici va ricordato Pier Santi Mattarella, fratello del capo dello Stato. Anche l’omicidio del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, porta la sua firma di mandante. Riina non si è fermato di fronte a niente e nessuno, alzando continuamente il livello dello scontro fino a firmare nel 1992 l’omicidio di Salvo Lima e le stragi di Capaci e di via D’Amelio come rappresaglia del maxiprocesso del 1984 che vide sul banco degli accusati 475 mafiosi e successivamente gli attentati - ancora misteriosi sul piano del movente - di Firenze, Roma e Milano.

La sua carriera è finita con l’arresto da parte del capitano Ultimo, il 15 gennaio del 1993, naturalmente a Palermo, dopo decenni di serena latitanza insieme con la famiglia. Irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa si era vantato in carcere con un altro boss detenuto dell’omicidio Falcone e continuava a minacciare magistrati.

Totò Riina muore portandosi dietro parecchi segreti. Senza addentrarci nei labirinti della presunta trattativa Stato-mafia, un personaggio di tal fatta e i suoi accoliti non potevano certo agire indisturbati senza complicità nella zona grigia del potere e delle istituzioni. Ma la risposta a tanti interrogativi il capo dei capi se l’è portata nella tomba.

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