Contratti di lavoro
Compromessi al rialzo

Hanno fatto bene, i vertici di sindacati e Confindustria, a siglare un accordo di 16 pagine sulla nuova contrattazione del lavoro (da ratificare domani), mettendolo al riparo dai venti elettorali e anzi inviando un messaggio neutrale alla politica tutta. E anche un buon esempio, perché i compromessi raggiunti sono al rialzo, segno di visione e buona volontà. Qui la facile demonizzazione dei cosiddetti «inciuci» (tabù populista di comodo che nega il senso stesso della politica come mediazione) non ha trovato accoglienza, perché si è stati capaci di fare concessioni premianti.

La trattativa, con protagonista instancabile il bergamasco Petteni, è stata difficile, è durata due anni, aveva la sua origine ancor prima negli accordi interconfederali del gennaio 2014, e contro le previsioni ha incluso anche la Cgil. I contenuti rivalutano le parti sociali dopo gli anni della disintermediazione renziana (ora si parla di quella degli algoritmi…), che le ha penalizzate, ma che non è stata inutile, producendo riflessione. Il «fai da te» spacciato per democrazia industriale diretta non porta lontani, ma occorre costruire.

La rappresentanza è davvero una partita di interesse generale, che lascia ora intravedere uno spirito addirittura di attuazione costituzionale, fino ad oggi – a 70 anni dal 1948 – non realizzato. La volontà di misurare la capacità di rappresentanza dei sindacati, ma per la prima volta anche delle parti datoriali, è un grande passo avanti e la premessa per far cessare il dumping salariale, che dava legittimità formale ad organizzazioni magari costruite ad hoc per far star in piedi accordi riduttivi. Basti segnalare che i contratti nazionali dieci anni fa erano 398, e oggi sono lievitati, secondo il Cnel (guarda chi si rivede…), a 868, solo un terzo dei quali sottoscritti dalle grandi organizzazioni sindacali e il 14% da Confindustria. Restano ovviamente spazi scoperti, e resta la ferita dei grandi assenti: Fiat, Impregilo, Finmeccanica. Aziende che hanno problemi interni oggettivamente diversi, ma che potrebbero oggi constatare che qualcosa sta innegabilmente cambiando rispetto al momento in cui hanno abbandonato le famiglie associative di origine.

E il segnale più significativo sta nel fatto che, al centro di questa svolta, sta una parola magica finora sempre fuori campo: la produttività. Facciamo bene a sottolineare i progressi dell’economia, ma questo è ancora il tallone d’Achille. Siamo cresciuti dello 0,3 annuo tra il 1996 e il 2016, mentre Germania, Francia crescevano cinque volte di più, e persino la Spagna due volte di più. Fatto 100 il 2010, noi siamo a 100,8, l’Ue a 106,4. Beninteso, la produttività non si crea o distrugge solo in fabbrica, perché è un tema sistemico e politico. La determinano fattori diversi che sfuggono in gran parte al controllo delle rappresentanze: il debito, la burocrazia, la giustizia civile lenta, il fisco iniquo, i dissesti bancari, la bassa qualità infrastrutturale. Anche il binario rotto di Pioltello penalizza la produttività, per le ricadute sull’efficienza dell’area più dinamica del Paese.

Ma se imprese e lavoro rivalutano il parametro produttività, elastico della crescita dei salari, è una buona notizia. Mettere ad esempio al centro la formazione significa dar risposta alla sfida del 4.0 che è stato il più forte segnale del Governo Gentiloni. Il resto può sembrare tecnicalità: due nuove sigle, Tem (trattamento minimo) e Tec (complessivo) saranno i riferimenti per mettere insieme due livelli flessibili: quelli minimi di carattere nazionale e più in basso. Welfare compreso, i riconoscimenti legati alla produttività e all’innovazione. Con ciò stesso frustrando il tentativo della politica di introdurre un salario minimo garantito che entrambe le parti non gradiscono (ma, una soluzione per 2,5 milioni di lavoratori non coperti, va trovata). La sostanza economica e politica è certamente incoraggiante. C’è bisogno di parti sociali credibili, e la lunga notte prima delle intese questa volta è stata tenera.

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