Corea, quei missili
una sfida per Trump

Aveva proprio ragione Obama quando, nell’unico colloquio avuto con Trump, lo avvertì che la sua prima grande crisi internazionale sarebbe stata provocata dalle ambizioni nucleari della Corea del Nord. Dopo due mesi di schermaglie, in cui il giovane dittatore Kim Jong-un è arrivato, nonostante il fallimento del suo ultimo test missilistico, a minacciare di «cancellare gli Stati Uniti dalla faccia della terra», la previsione si sta avverando: martedì gli americani hanno cominciato a installare nella Corea del Sud il contestato sistema antimissili Thaad, hanno fatto arrivare nel porto di Busan un sommergibile nucleare e dato ordine alla portaerei Vinson, impegnata in manovre congiunte con i giapponesi nelle Filippine, di prepararsi a fare rotta verso Nord.

Kim ha risposto con un’imponente esercitazione di artiglieria, facendo fuoco contemporaneamente con 300 cannoni a lunga gittata che, se puntati su Seul, la potrebbero radere al suolo, e ha ripreso i preparativi per il suo settimo test nucleare, che stando ai servizi segreti sudcoreani potrebbe aver luogo già venerdì.

Gli esperti americani temono che si potrebbe trattare addirittura della sua prima bomba a idrogeno, di una potenza mille volte superiore a quella di Hiroshima. In queste ore, il presidente cinese Xi sta cercando con tutti i mezzi di evitare lo scontro, da un lato minacciando Kim di tagliargli i rifornimenti di petrolio, dall’altra telefonando personalmente a Trump per esortarlo alla moderazione. Ma «the Donald», allarmato dalle notizie sui rapidi progressi tecnici della Corea del Nord, che ormai avrebbe i materiali e la capacità per costruire una nuova testata nucleare ogni sei settimane, è, almeno a parole, deciso a fermare Kim. «Ci siamo voltati dall’altra parte per troppo tempo - ha detto -. Ora basta». E ieri sera ha convocato i cento senatori alla Casa Bianca per consentire al segretario di Stato Tillerson, al segretario alla Difesa Mattis, al capo di Stato Maggiore Dunford e al capo dei Servizi di informazione Coates di illustrare loro la gravità della situazione.

La corsa della Corea del Nord al nucleare è iniziata molti anni fa (il primo test, molto primitivo, risale al 2003) e tutti i presidenti americani che si sono succeduti da allora hanno cercato, un po’ con il bastone delle sanzioni economiche, un po’ con la carota degli aiuti economici, di fermarla, ma non avevano mai ritenuto che la minaccia fosse abbastanza consistente per ricorrere a un intervento armato preventivo. Tanto Bush quanto Obama, quanto lo stesso Trump speravano che la Cina risolvesse il problema, ma Kim sembra deciso a sfidare tutti pur di trasformare la Corea in una potenza nucleare inattaccabile. Si tratta, in un certo senso, della sua assicurazione sulla vita.

Ancora prima dell’imponente sfilata del 15 aprile, gli americani davano per scontato che le Forze armate nordcoreane potessero contare su circa mille missili balistici di varie dimensioni. Ma il rapporto che ha veramente spaventato Trump dice che, entro il 2020, cioè ancora durante il suo primo mandato, Pyongyang sarà in grado di mettere a punto sia un missile intercontinentale in grado di raggiungere gli Stati Uniti, sia di produrre una testata nucleare abbastanza piccola per essere montata su questo razzo e abbastanza robusta per resistere alle enormi sollecitazioni provocate dal rientro nell’atmosfera.

La Cia è stata molto intrigata da una foto di Kim con in mano un oggetto che potrebbe essere un modellino della testata in costruzione. Fino all’anno scorso, il missile atomico più potente di Pyongyang, chiamato Nodong, aveva una gittata di 800 miglia, cioè era in grado di colpire solo la Corea del Sud e un pezzo di Giappone, ma già nel 2017 dovrebbe entrarne in servizio uno capace di arrivare a 2.200 miglia, cioè alla base americana di Guam. Fermare i test prima che sia troppo tardi sta perciò diventando per la Casa Bianca un obbiettivo irrinunciabile.

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