Corruzione in sanità
Mancano anticorpi

La corruzione in Italia potrebbe essere assimilata all’influenza: non si sa quanti la prenderanno, ma certamente ad alcuni capiterà di ammalarsi. Il caso della Sanità in Lombardia è il più recente di una lista lunghissima, la quale tra breve tempo avrà nuovi sviluppi. Di fronte a uno scenario così stancamente ripetitivo, le prime, istintive, risposte sono tutte sbagliate: «È sempre lo stesso schifo, sono tutti uguali»; «inutile indignarsi, tanto non cambierà mai nulla»; «i dipendenti pubblici sono una massa di corrotti». Risposte che producono il solo esito di avvilire la pubblica opinione, allontanandola dalla partecipazione al «governo dei beni comuni» e scoraggiando quanti, in ogni settore, fanno onestamente la loro parte.

Occorre, all’opposto, non stancarsi mai di distinguere, per evitare generalizzazioni fuorvianti. Un dato è incontestabile: la corruzione in Italia è un fenomeno radicato, largamente esteso, che in certi casi ha assunto caratteristiche endemiche. Malcostume tanto noto e sottoposto all’attenzione pubblica, quanto arduo da sradicare o, almeno, da ridurre a consistenza meno preoccupante. Quali gli elementi che hanno concorso a questa brillantissima inerzia? In primo luogo, nei confronti di corrotti e corruttori vi è un sentimento, largamente diffuso, di accondiscendenza: una sorta di rispetto per la destrezza nell’eludere o aggirare le regole. Tale lassismo nell’etica civile (prima ancora che nell’etica pubblica) ha radici lontanissime e storicamente ben note.

Nel recente passato l’idea che fosse lecito corrompere per destinare soldi alla politica ebbe in un presidente del Consiglio un assertore convinto. Da tale impronta, lasciata alla memoria del Parlamento, derivò una presunzione di impunità di corrotti e corruttori, che ha trovato formidabile alimento nel progressivo declino della qualità del ceto politico.

Come emerge dalle carte processuali una parte non irrisoria di politici sceglie quella strada con l’obiettivo specifico di procurarsi vantaggi personali (in soldi, favori, opportunità). Tanto nelle rappresentanze nazionali, quanto in quelle locali l’impoverimento civile, culturale, morale, dei «governanti» è ormai così evidente da risultare devastante. Laddove non c’è corruzione, c’è sovente incompetenza e assenza di strumenti (professionali e culturali).

Lo smantellamento del sistema – indubbiamente poco incisivo - dei controlli preventivi aveva una sua ragion d’essere, perché tendeva a indirizzare l’azione dei controllori sull’efficacia dell’azione pubblica, piuttosto che sui singoli atti di spesa. Di fatto, in particolare nelle amministrazioni territoriali, i nuovi meccanismi di controllo si sono dimostrati assai lacunosi. A poco sembra essere valsa finora l’azione di autorità pubbliche che hanno lo specifico compito di controllare le spese pubbliche (la Corte dei Conti) o di contrastare la corruzione (l’Autorità nazionale anticorruzione). Il baluardo principale resta la magistratura ordinaria, che arriva, per definizione, quando i buoi hanno lasciato le stalle. Cioè, quando i reati sono da accertare e da punire.

Questo sbilanciamento è la prova più lampante del vero nodo del problema: sono deboli gli anticorpi. In tutti i gangli del Paese. A livello politico, una selezione del ceto di governo dominata dalla cooptazione (raramente dei migliori); a livello amministrativo, con fenomeni sempre più marcati di prevalenza dell’appartenenza politica rispetto alla competenza e all’onestà; nel tessuto sociale con un progressivo distacco dall’impegno civile. Occorrerebbe cominciare da lì.

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