Così si è uccisa
anche la speranza

La chiamano Corte europea dei diritti umani ma questa volta, purtroppo, si è occupata soltanto di diritto, inteso come giurisprudenza. Un «tecnicismo», potremmo dire con un sussulto di qualche insigne giurista, che di umano non ha proprio nulla. A pagarne le conseguenze sarà il piccolo Charlie Gard, cittadino britannico, undici mesi, nove dei quali trascorsi in un intreccio di tubicini che gli consentono di restare aggrappato alla vita. Tutta colpa di una rarissima malattia genetica, la sindrome di deperimento mitocondriale (16 casi conosciuti al mondo) che provoca un progressivo indebolimento muscolare. La sorte di Charlie è segnata e per i medici inglesi che l’hanno assistito fino ad oggi non c’è più nulla da fare: siamo all’accanimento terapeutico - dicono al Great Ormond Street Hospital di Londra - e quei tubicini vanno staccati, per evitare al piccolo lunghe e inutili sofferenze. Scontate le reazioni dei genitori, che invocano la giustizia inglese e la possibilità di trasportare il loro piccolo negli Usa per una cura sperimentale mai usata sull’uomo. Ma per i tre gradi di giudizio d’Oltremanica, la sentenza è sempre la stessa: per Charlie non esiste ragionevolmente cura, siamo all’accanimento terapeutico. I medici, dunque, stacchino pure la spina. Non resta che rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.

Che, alla fine, sceglie di non decidere, e pur rilevando che le sentenze dei tribunali inglesi sono state «meticolose e accurate», sottolinea che non le spetta il compito di sostituirsi alle competenti autorità nazionali, che hanno già ampiamente motivato il perché delle loro risoluzioni. Spetta solo a Londra decidere quando staccare la spina. Sembra quasi sentir riecheggiare una voce che viene dalla Storia dell’uomo: «Prendetelo voi e uccidetelo. Io non trovo in lui nessuna colpa....»

Charlie, dunque, deve morire, e questa volta, purtroppo, non è la parafrasi di un film dell’orrore, ma la cruda e drammatica realtà della cose. Non c’è motivo di pensare che i magistrati inglesi non abbiano agito con la massima serietà, ma davanti ad una sfida simile - tutelare il diritto alla vita di un bimbo di undici mesi già condannato a morte dal suo stesso Dna -, tutta la ragionevolezza umana avrebbe forse potuto fare un passo indietro e lasciare spazio solamente alla compassione. Forse codici e pandette avrebbero dovuto essere richiusi sui banchi dei giudici, lasciando che gli occhi e le menti «leggessero» il cuore di chi aveva chiesto loro aiuto. Forse quegli occhi avrebbero dovuto incrociare gli occhi di Charlie che, dicono i genitori, riconoscono le persone e vengono usati per far capire cosa gli piace e cosa non gli piace. Forse. Ma nell’Europa di oggi - appare evidente - non c’è posto né per un bimbo malato né per ascoltare le invocazioni di aiuto dei suoi genitori. Anche qui la voce narrante della Storia sembra ripetersi: «Non c’era posto per loro nell’albergo...».

Qualcuno ha detto che nella culla di Charlie muore anche un pezzo d’Europa. È così, e quel che è peggio è che muore senza nemmeno un sussulto di vergogna. Dove sono finiti i paladini di tutti i diritti possibili e immaginabili dibattuti negli ultimi anni davanti alla Corte europea? Dove sono finiti i difensori di tutte le pretese più strampalate spacciate come inviolabili diritti civili? Dove sono finiti i «tutori» del suicidio assistito, pronti col microfono in mano a spiegare quanto sia giusto aiutare chi vuol morire? Persino loro, dove sono finiti? Nel mondo civile - Italia in primis, date anche le condizioni delle nostre carceri - si discute da tempo sulla «legittimità» dell’ergastolo, da molti considerato inumano, e un tribunale della Vecchia Europa - dove la pena capitale è bandita da tempo - impone di uccidere un bambino. Ma il diritto alla vita non è un diritto inviolabile? E chi legittimamente lo reclama non ha diritto a vederselo riconosciuto?

Ancor prima di essere un caso da discutere in un’aula di tribunale, dice Adriano Pessina, direttore del centro di ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Charlie «è un bambino che prima di tutto deve essere custodito nella sua fragilità, e in ogni caso, fosse davvero bene sospendere i trattamenti, ha diritto a un accompagnamento alla morte che coinvolga anche i suoi genitori». Non riconoscere nemmeno questo sarebbe semplicemente brutale.

Ma in attesa che i medici londinesi diano seguito a quanto deciso nelle aule di giustizia, la «sentenza» di Strasburgo ha già fatto una vittima: ha ucciso la speranza di un uomo e di una donna. Ha ucciso la speranza di un papà e di una mamma che hanno implorato di poter portare il loro figlio negli Stati Uniti per sperimentare una possibile cura, e senza alcuna spesa per il Servizio sanitario inglese. Invece no. In poche righe hanno definito questa sperimentazione del tutto aleatoria, incuranti di cancellare senza pietà il sogno e l’ultima speranza di due genitori. Sperare in cosa? Sperare e basta. Non importa in cosa. Non importa se la mamma e il papà di Charlie sperano in un miracolo terreno – la cura americana mai tentata prima nell’uomo ma solo nei topi – o in un miracolo ultraterreno. Qui non siamo di fronte a una questione religiosa o una questione teologica. Non c’è nulla da decidere, se non lasciare spazio al «cuore» di due genitori che, per dirla come Eraclito, senza la speranza non potrebbero mai trovare l’insperato. Non c’è nulla da decidere, se non lasciare spazio alla pietà e alla misericordia. Qualcuno ha scritto che «oggi pietà e misericordia sono pura follia. Ma di questa follia oggi non possiamo fare a meno».

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