Da Parigi a Parigi
L’anno del terrore

Un anno fa, l’inizio della fine. Un anno dopo, mentre Parigi si ferma per ricordare le vittime della strage di Charlie Hebdo, la paura torna a terremotare le sue fragili sicurezze. Ieri un uomo armato di coltello da macellaio e (finta) cintura esplosiva è stato ucciso davanti a un commissariato di polizia.

Nelle stesse ore, nelle edicole andava a ruba il nuovo numero del settimanale satirico con dio in copertina, barba lunga e kalashnikov in spalla. Titolo: «L’assassino è ancora in giro». Nessuno avrebbe mai voluto ammetterlo, ma quell’inizio non ha fine.

C’è un elemento di continuità che lega i fatti di Parigi, da Charlie Hebdo al Bataclan all’ultimo, ieri. La volontà dello Stato islamico (lo Stato, non la religione) di seminare il terrore in Francia facendo entrare sotto pelle, direttamente in vena, il veleno dell’angoscia. L’obiettivo è semplice: dividere i francesi mettendoli uno contro l’altro sulla base del proprio credo religioso.

Con Charlie Hebdo si colpiva un bersaglio ben identificabile e tutto sommato circoscritto: nemici dell’islam o comunque poco rispettosi dei valori islamici. Venerdì 13 novembre il bersaglio è stata la gente comune. Per questo ogni avvenimento di scala mondiale diventa automaticamente di scala locale. Come l’onda sismica di un terremoto, lo choc del terrore si propaga dall’epicentro alla periferia, da Parigi alla Francia, all’Europa. La geografia è variabile, la scala elastica, le distanze liquide.

Nell’Ile de France, cioè grosso modo la regione della megalopoli parigina, ormai meno del 20 per cento della popolazione è francese. Questo gigantesco melting pot di razze e culture sprigiona la massima concentrazione di tutte le professioni cosiddette «creative», dall’arte all’hi-tech, dalla comunicazione all’economia, all’industria leggera e leggerissima. Una caratteristica tipica di quel modello di convivenza che i sociologi definiscono «società mondo» dove l’incontro di persone diventa incontro di idee, crogiuolo fecondo perché supera i confini e li supera proprio perché non ne ha bisogno e non le fanno paura. Un ambiente necessariamente aperto al dialogo, dove il confronto diventa palestra di vita prima ancora che metodo di lavoro. Proprio il contrario dell’integralismo e del protezionismo. Proprio quello che hanno voluto colpire i terroristi il 13 novembre: giovani urbani aperti e cosmopoliti che la sera si ritrovano solo per il gusto di stare insieme, a mangiare e ascoltare musica.

La fine dell’era industriale ha scavato un fossato nella società occidentale. Da una parte chi riesce comunque a sfangarla, riconvertendosi alle mutate esigenze produttive; dall’altra chi si sente disprezzato, o peggio, inutile rispetto al nuovo ordine economico-sociale. Alcuni sociologi francesi hanno condotto un’indagine sul campo – tre anni nelle carceri francesi – e hanno individuato una tipologia di aspiranti jihadisti: giovani che si sentono esclusi, che hanno interiorizzato l’odio della società e si sentono profondamente vittime. L’adesione all’islam è un modo per sacralizzare il loro odio e legittimarlo.

Il politologo Olivier Roy parla di rivolta generazionale e nichilista e accomuna il reclutamento dei jihadisti alle sparatorie del liceo di Columbine (Usa) del 1999 perché - spiega - sono gli stessi giovani che si perdono nella violenza auto distruttrice. In Oriente come in Occidente esiste una gioventù affascinata dal nichilismo suicida. E l’islam offre una dimensione globale, anche un po’ mistica, un nome alla causa.

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