Deficit, l’abisso
tra Italia e Francia

Il vice presidente del Consiglio Di Maio, per giustificare la scelta del governo di portare il deficit al 2,4%, ha citato l’esempio del premier francese Macron che si appresta a varare un deficit del 2,8%. Andrebbe, tuttavia, anzitutto precisato che Macron ha destinato il deficit ad una riduzione delle tasse per 24,8 miliardi di euro, di cui 6 miliardi in favore delle famiglie e 18,8 miliardi in favore delle imprese. Sono misure che potranno portare un sensibile contributo alla crescita, obiettivo questo che appare più difficilmente conseguibile con il Reddito di cittadinanza e la riforma della legge Fornero. Dall’esame degli indicatori macroeconomici più importanti, si comprende perché la Francia possa offrire ai mercati finanziari garanzie di solidità economica ben superiori alle nostre.

Il nostro Pil vale circa 1.530 miliardi, a fronte dei 2.200 della Francia, ed è cresciuto sempre più lentamente di quello francese. Per il biennio 2018/2019 si prevede in Italia una crescita media dell’1,2%, in Francia dell’1,7%. Il nostro debito ha raggiunto i 2.330 miliardi, ben al di sopra dei 2.100 francesi e il rapporto debito/Pil vale 130% in Italia, uno dei più alti nell’area occidentale, contro il 98% in Francia. Nell’ultimo anno la nostra spesa sul debito è stata di 55 miliardi, a fronte dei 15 della Francia. Questi dati hanno risentito positivamente dell’effetto dell’acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce (quantitative easing), che cesserà il prossimo 31 dicembre. Prima di tale intervento la nostra spesa era di 80/90 miliardi l’anno e potrebbe in futuro essere ancora maggiore in presenza di una continua crescita dello spread.

Del resto, il tasso medio di un titolo di Stato, che a gennaio era dell’1,2%, a fine agosto è già raddoppiato al 2,44%. Tra i problemi del nostro debito vi è anche quello delle cosiddette «clausole di salvaguardia». Nel 2011 - prima del famoso picco dello spred fino a oltre 550 punti, che portò al governo Monti - il governo Berlusconi, di cui faceva parte la Lega, pur di avere qualche margine di manovra con Bruxelles si impegnò a garantire i vincoli del patto di stabilità per gli anni a venire attraverso una «clausola di salvaguardia».

In altri termini, se il governo successivo non fosse riuscito a trovare, entro il 30 settembre 2012, una somma di 20 miliardi attraverso una razionalizzazione della spesa sociale, la cosiddetta «spending review», quelle risorse sarebbero state reperite attraverso un taglio delle agevolazioni fiscali o un aumento delle imposte indirette tra cui rientrano l’Iva e le accise sui carburanti. Da allora, tutti i governi che si sono succeduti hanno dovuto fare i conti con questa spada di Damocle. Una significativa riduzione dell’importo iniziale è stato realizzato con le misure di austerità del governo Monti. I governi Renzi e Gentiloni hanno evitato lo scatto delle clausole ottenendo una certa flessibilità sui conti attraverso estenuanti trattative con Bruxelles, appellandosi ai terremoti e alla crisi dei migranti. Resta dunque il fatto che l’attuale governo dovrà trovare 12,4 miliardi per evitare dal prossimo primo gennaio gli aumenti dell’Iva dal 10 al 12% per l’aliquota intermedia e dal 22% al 24,2% per quella ordinaria.

Senza considerare i 19,1 miliardi che serviranno per disinnescare i rincari dell’Iva dal 1° gennaio 2020, con le aliquote che salirebbero rispettivamente al 13 e al 24,9%. Se questo governo fosse veramente del «cambiamento», come si autodefinisce, avrebbe già dovuto attivarsi, a differenza di quelli che lo hanno preceduto, per reperire le risorse necessarie a far fronte a questi impegni, realizzando un’efficace «spending review» in grado di eliminare tanti sprechi attraverso una effettiva razionalizzazione della spesa pubblica. È proprio questo che l’Europa da anni ci chiede di fare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA