Democrazia e partiti
il test candidature

Democratizzare i partiti. Una sfida quasi impossibile, lanciata forse fuori tempo massimo, e comunque necessaria. La annuncia Renzi come la prossima riforma in cantiere. La Costituzione, all’art. 49, riconosce i partiti come strumenti, importanti ma non esclusivi, in mano ai cittadini perché questi possano «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». L’espressione «concorso» sottolinea il limite dei partiti: rispetto agli altri partiti, contro ogni pretesa totalitaria; rispetto agli altri canali di partecipazione sociale e politica, la cui autonomia deve essere protetta dall’invadenza dei partiti stessi; e rispetto ai cittadini alla cui partecipazione i partiti devono restare orientati e aperti.

La formula «con metodo democratico» può invero suonare sfuggente, e infatti vi è ancora chi sostiene che un’organizzazione interna democratica sia imposta dalla Costituzione ai soli sindacati (art. 39) e non ai partiti. Ma davvero questa posizione appare capziosa, perché, attestandosi su una certa ambiguità della lettera dell’art. 49, trascura di considerare l’architettura sistematica della Costituzione nella quale i partiti dovevano funzionare come vettori delle istanze sociali entro lo spazio pubblico, come raccordo privilegiato tra la sfera della società e quella istituzionale. Per questo, il partito deve offrire garanzie di libertà e di partecipazione e non degenerare in strumento opaco di potere.

Nell’esperienza storica, la posizione di cerniera ha invece esposto i partiti al rischio di essere risucchiati entro l’apparato statale, con progressiva «eradicazione» nefasta dalla società. Essi appaiono ora contenitori di carriere politiche individuali e strumenti deboli di coordinamento degli eletti nelle istituzioni pubbliche. In tempi di verticalizzazione dell’apparato partitico, sempre più «riassunto» dal solo leader, il partito rischia perfino di ridursi a «macchina da guerra» per l’investitura del suo «capo» a «capo» della Nazione. In questo passaggio, il ruolo del partito si è squilibrato verso una funzione di governo, a detrimento della trasmissione della domanda politica dai cittadini alle istituzioni. Questa involuzione spinge i partiti a esibire un’immagine di efficienza nella determinazione di un indirizzo unitario e a occultare, come patologiche, le mediazioni interne, dando così l’innesco a una spinta di semplificazione (la «presidenzializzazione» dei partiti) che si riproduce continuamente: dalla ricerca della predefinizione, nel momento elettorale, di una coalizione, si è passati all’ambizione per un partito di governo, che, per questo, si pretenderebbe fosse un partito compatto; fino all’identificazione dello stesso con un leader, aspirante «capo» del governo.

In tutto ciò, ad oggi, i partiti sono soggetti alle norme del codice civile che regolano la vita delle associazioni non riconosciute. Tale inquadramento non coglie affatto la loro specificità, data dalla titolarità di funzioni di rilievo pubblicistico, che cioè, quanto ad effetti, fuoriescono dalla sfera dei soli associati ed hanno ricadute sulla generalità dei cittadini. Almeno per queste funzioni (in primis, la selezione delle candidature), è dunque necessario imporre ai partiti standard di democraticità interna. La riforma dell’organizzazione interna dei partiti sarebbe anche necessaria per dare un senso davvero federale alla trasformazione del Senato, che implica la valorizzazione di una certa autonomia dei sistemi partitici territoriali rispetto alle segreterie nazionali. In questi ultimi anni, qualche passo in avanti è stato fatto.

L’Unione europea ha, a dispetto della sua cattiva fama, aperto la strada con la regolamentazione, dal 2003, dei partiti politici europei. Il decreto legge 149/2013 (del governo Letta), che ha gradualmente soppresso il finanziamento pubblico diretto ai partiti, ha condizionato l’accesso alle agevolazioni fiscali e al 2 per mille al rispetto di requisiti di trasparenza. La riforma annunciata da Renzi dovrebbe proseguire nella direzione così tardivamente intrapresa. Essa intenderebbe riconoscere la specificità dei partiti, che si vorrebbero costituiti con atto pubblico, di cui è parte integrante lo statuto; si mira poi a rafforzare le garanzie di trasparenza e di democraticità necessarie per accedere agli strumenti di finanziamento.

La posta in gioco più significativa è però quella, a mio avviso, di democratizzare sostanzialmente – e non solo formalmente – la principale funzione di rilievo generale dei partiti, e cioè la selezione delle candidature. Ciò non significa rendere obbligatorie le primarie, tanto più se aperte, ma prescrivere strumenti di partecipazione almeno degli iscritti alle procedure di selezione dei candidati. Sul punto, qualche ambiguità sembra persistere: agli iscritti si vuole garantire un diritto di informazione sulla vita e sulle attività del partito, o anche strumenti effettivi di partecipazione e decisione? La trasparenza è condizione necessaria della partecipazione, ma non sufficiente. Su questo, soprattutto in presenza dell’Italicum, che mantiene una quota rilevante di «nominati», si giocano la genuinità e l’efficacia della riforma.

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