Dietro il conflitto
i confronti economici

Com’era quella vecchia massima, quella per cui a pensar male si fa peccato ma spesso s’indovina? L’antica e sardonica saggezza di Andreotti torna alla mente ora che la Libia è di nuovo sul punto di esplodere e il fragile Governo di Fayez al-Sarraj ha l’acqua alla gola. Sarà un caso ma tutto questo avviene tra il viaggio del premier Conte a Washington, dove Trump arrivò a proporre una «cabina di regia» italo-americana (riconoscendo così una sorta di diritto-dovere italiano a occuparsi del Paese), e la conferenza sulla Libia convocata per il 10 novembre
a Roma.

Da molti anni, infatti, si sviluppa intorno alla Libia una specie di guerra che oppone l’Italia alla Francia e di cui gli eventi di questi giorni non sono che la pagina più recente. Nel 2011 il presidente Sarkozy (ora accusato di essersi fatto finanziare la campagna elettorale dal colonnello Gheddafi) si fece promotore della guerra contro la Libia anche per liberarsi del Trattato italo-libico firmato nel 2008 e per incrinare la preminenza che l’Eni era riuscita ad assicurarsi, a scapito tra gli altri della francese Total, nel mercato del petrolio libico. Nel 2015 il presidente Hollande, che pure giurava di voler appoggiare il Governo di Al-Sarraj nato sotto l’egida dell’Onu, fu scoperto ad armare le milizie del generale ribelle Khalifa Haftar (ex gerarca di Gheddafi, ex agente della Cia) e a mandargli in aiuto le forze speciali francesi. E adesso Macron, che in luglio ha chiamato a Parigi sia Al-Sarraj sia Haftar, fuori da qualunque cornice Onu o anche solo Ue, con il chiaro scopo di metterli sullo stesso piano, nonostante che solo Al-Sarraj sia riconosciuto dalla comunità internazionale. E che ora, per interposta milizia, tenta un’edizione libica dello «schiaffo di Tunisi» del 1881, l’azione di forza con cui il governo francese stabilì un protettorato sulla Tunisia che aveva già firmato un accordo con l’Italia.

La Francia, insomma, pratica un po’ di sano colonialismo vecchio stampo. Macron è sovranista e nazionalista, altro che i nostri Salvini, Di Maio e Conte. E sulla Libia lo è stato sempre, che di fronte avesse la sinistra e i toni moderati di Gentiloni o le maniere spicce di Salvini. Bisognava partire da «noi», cioè da fuori della Libia, per provare a capire (capire sarebbe parola grossa) che cosa può succedere da «loro», cioè dentro la Libia. Perché lo sfacelo libico è opera nostra, della guerra del 2011, che per abbattere Gheddafi ha distrutto uno dei Paesi più sviluppati e organizzati dell’Africa, e dei successivi maneggi in cui Italia e Francia si sono esercitate come detto, avendo però accanto Usa e Gran Bretagna, Russia ed Egitto, Turchia e Qatar.

Quello che si sarebbe dovuto fare, dopo aver autorizzato nel 2011 quella guerra che era la pura riedizione (conseguenze comprese) della guerra del 2003 contro l’Iraq, era aiutare in ogni modo il Governo Al-Sarraj a consolidarsi nel suo ridotto di Tripoli e rafforzarsi per allargare pian piano la propria sfera di influenza. Quello che invece è successo è che ogni Paese è andato avanti quasi per conto proprio, sperando di ricavarne il massimo dei vantaggi con il minimo dell’impegno e del rischio.

Anche l’Italia. Sì, anche noi. Il Trattato del 2008 prevedeva, per la Libia, un «assegno» da 250 milioni l’anno da spendere in opere infrastrutturali, che sarebbero state costruite da imprese italiane. L’accordo sui migranti firmato dal ministro Minniti nel gennaio 2017 mirava a proteggere le coste italiane dagli sbarchi. L’appoggio del Governo Conte ad Al-Sarraj è proseguito su quella linea. Anche l’Italia ha cercato vantaggi. Ma lo ha fatto sempre e comunque all’interno della cornice istituzionale internazionalmente riconosciuta, con una correttezza di fondo che non può essere disconosciuta, mentre altri operavano per destabilizzare anche quel poco di stabile che s’era creato.

Nei confronti della Libia l’Italia ha peccato, ma di un eccesso di correttezza. Avremmo avuto il diritto (perché nessuno conosce quel Paese quanto noi) e il dovere (per difendere l’interesse nazionale) di intervenire con più decisione, a partire dal 2008 quando ci accodammo a una spedizione anti-Gheddafi che ha prodotto solo macerie e sofferenze per i libici. Ma non siamo la Francia né il Regno Unito. E non sappiamo esserlo nemmeno sulla soglia di casa.

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