Dietro Sala e Parisi
rispuntano i partiti

Il principio di personalizzazione in politica ha i giorni contati. I due candidati sindaci di Milano hanno biografie gemelle. Sala non ha una storia particolarmente di sinistra, Parisi non ha per nulla una storia di destra. Stanno ambedue al centro, Sala sporgendosi a sinistra, Parisi a destra. Pertanto, l’elettore che voglia «votare la persona» rischia di trovarsi nella scomoda condizione dell’asino del filosofo medievale Buridano: posto davanti a due mucchi di fieno uguali, non riuscì a scegliere e morì di fame. Gli elettori milanesi, tuttavia, sceglieranno.

Non tutti: alcuni finiranno per astenersi dal voto, essendo vittime dell’ideologia della personalizzazione e non riuscendo, pertanto, a giustificare la scelta dell’uno piuttosto che dell’altro. Tuttavia, alla fine, un sindaco sarà eletto. Ma chi sceglierà, non partirà dalla persona, ma dallo schieramento che la sostiene. Con ciò però, contro ogni apparenza fantasmagorica e mediatica, non sarà la persona a fare la differenza, ma i partiti che le stanno alle spalle. Se Milano è un laboratorio politico nazionale, dai suoi alambicchi viene fuori uno strano composto chimico nuovo: non il manager che diventa leader politico, ma la politica che, non essendo più in grado di esprimere capacità di gestione politico-amministrativa, va alla ricerca di un amministratore delegato, esterno ad essa. Con ciò gli schieramenti sono posti di fronte ad un esito paradossale della propria crisi culturale e organizzativa.

Quello perdente, avendo cercato furbescamente di far portare la croce ad un Cireneo, alla fine sarà lui a finire sulla croce. Quanto allo schieramento vincente, si riapproprierà nel Consiglio comunale della delega conferita all’amministratore delegato vittorioso. È già accaduto con Pisapia, dopo la vittoria del 2011. Insomma: questa campagna elettorale, a Milano e dovunque, ci restituisce i partiti, i movimenti, gli schieramenti, le alleanze. L’esperimento di Berlusconi, che dal nulla ha messo in piedi, di tasca propria, un partito politico sembra difficilmente replicabile. E lo stesso non si tarderà a vedere a proposito di Grillo. Che significa questo «ritorno» dei partiti? Una cosa molto semplice: che, in realtà, non se ne erano mai andati. Il fatto è che, nonostante le apparenze, la forza dei partiti non risiede più e da tempo nei loro legami con la società civile, ma nel loro rapporto con le istituzioni: decidono il personale di tutte le istituzioni e, in primo luogo, scelgono il governo. Sono partiti-Stato. Gusci culturalmente vuoti? Certo, ma perciò capaci di galleggiare sulla propria crisi. Hanno drammaticamente ridotto gli iscritti, vedono solo il presente contingente, senza progetto, hanno smarrito ogni capacità di educazione politica, sono stati radicalmente sfiduciati da un non-partito - che sta diventando fatalmente un partito di massa a sua volta e che, perciò, a breve, incontrerà gli stessi problemi e le stesse débâcles - e tuttavia sono ancora qua davanti. Sono «tornati», sempre con la stessa logica: coalizzarsi per vincere, impedirsi a vicenda di governare.

Finito il tempo dei partiti-personali, questo è ciò che resta. C’è qualcosa che può prosciugare questa palude? Una sola: togliere la rendita di posizione che i partiti hanno costruito rispetto alle istituzioni e alla formazione di governi seriali. Non più i partiti, ma i cittadini devono scegliere direttamente il governo. È questo, d’altronde, il senso ultimo delle riforme costituzionali e dell’Italicum. La posta in gioco non è il governo di Renzi, ma la forza dell’istituzione-governo, chiunque la eserciti, Renzi o Berlusconi o Grillo... Questa la rottura culturale necessaria, che costringe i partiti a fondare la legittimazione sui legami con la società, non con lo Stato. Ed è questo, infine, che i resistenti e conservatori di ogni segno respingono accanitamente. Eppure, sconfiggere il populismo è possibile, rendendo responsabili i cittadini della scelta del governo.

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