Due programmi
per non cambiare

Su quale versione del programma elettorale dei 5Stelle sta coscienziosamente lavorando il prof. Giacinto Della Cananea, incaricato dal capo politico Di Maio di trovare differenze e affinità con Lega e Pd, con i quali i grillini pensano indifferentemente di potersi alleare, perché tanto sinistra e destra per loro pari sono? Di programmi infatti ce ne sono almeno due, secondo le ricerche de «Il Foglio»: quello prima del 4 marzo e quello dopo le elezioni, che sul web ha sostituito il primo, pur solennemente votato dagli iscritti. Uno per vincere a colpi di reddito di cittadinanza, contestazioni contro Europa e Euro, posizioni filorusse. L’altro per andare a Palazzo Chigi, moderato, europeista. Uno che descriveva la Nato come causa di destabilizzazione e l’altro che consente di prendere per buono l’intervento in Siria. Uno che prometteva 780 euro a tutti, l’altro che stanzia due miliardi per far funzionare i centri dell’impiego.

Già il lavoro del prof. Della Cananea era abbastanza complicato, in mancanza di una indicazione politica su ciò che si vuole (Intesa o rottura? Chiusura o apertura di forni?). Così è diventata davvero una missione impossibile, perché l’equazione era con due incognite, ora sono diventate tre. Ma il problema non è tecnico, è appunto politico: che cosa sta tentando di fare, il Movimento, ora che è a un passo dal potere, ma non ci può arrivare da solo e ha bisogno di compromessi (la parola inciucio ormai è sparita)?

Se si tratta di mettere in soffitta la carica rivoluzionaria e diventare un partito tradizionale, anche il prof. Della Cananea si troverebbe a suo agio, trattandosi di un esponente dell’odiato establishement. Ma se allora l’intenzione è quella di rimettere il tonno nella scatoletta, i primi ad essere informati dovrebbero essere gli elettori 5Stelle, in particolare quelli strappati ai vecchi partiti rimasti attardati a parlare di compatibilità finanziarie, Europa, mercati e ciarpame vario, e dunque battuti innanzitutto dalla noia.

A quelli, il «cambiamento» era piaciuto e l’avevano votato un po’ per convinzione un po’ per punire chi apprezzava il rigore dei conti e non cacciava via sui due piedi mezzo milione di clandestini. Non è bello raccontargli ora che – causa cattivo tempo – la rivoluzione è rinviata, un po’ come l’indipendenza della Padania, che resta solo negli Statuti. Per il resto, conta il Ppe. Chi, non solo in Italia, ha preso sul serio i populismi, resta quanto meno sconcertato, di fronte a queste giravolte. Perché il modello disegnato in questi anni anche in Italia – democrazia diretta, sovranismo, protezionismo, debito, svalutazione della moneta, assistenzialismo – è roba discutibile ma seria, e un popolo può anche sceglierlo, ultimo esempio quello ungherese. Ma il machiavellismo è un metodo, non la motivazione di una presa in giro.

Non si può passare dalla denuncia del «male assoluto» all’accettazione di qualunque accordo, e sbaglierebbe il prof. Della Cananea a dare un avallo tecnico ad un fatto politico. Insomma, avvertiteci quando il Palazzo d’Inverno sarà davvero conquistato e verranno mantenute le promesse. Così, a metà strada, si sta poco bene. Già non ci sono più le mezze stagioni e non si può più dire «quasi goal». Ora c’è la Var , la verità salta a galla. Se il vaffa resta solo nei pensieri reconditi dell’ala massimalista, che però abita ormai tra gli stucchi e i lussi della presidenza della Camera, e abbiamo solo scherzato perché in fondo destra e sinistra non erano così male, lo deve dire comunque il capo politico, non un professore. Parafrasando i furbetti del quartierino, non si può fare la rivoluzione con il riformismo degli altri. Allora meglio l’originale.

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